Arriva? Ma quando arriva? E viene anche per me? Passa dal camino? O dal portone? A tutte queste domande mia madre rispondeva che sì, arrivava e veniva anche per me e passava dal portone, quello grande che lei avrebbe lasciato aperto,… poco, giusto uno spiraglio per non far entrare il freddo.
E poi avrebbe lasciato il latte coi biscotti sul tavolo in cucina per Babbo Natale che veniva da lontano con la slitta e doveva mangiare qualcosa e scaldarsi perché il giro era lungo.
Me lo figuravo mentre faceva capolino attraverso il pertugio, col sacco in spalla, il berretto e il mantello, bordato di ermellino. Bello, alto, un bel viso sorridente , coi capelli folti e brizzolati come quelli del nonno.
A otto anni ci credevo, eccome, a Babbo Natale, però…qualche dubbio cominciava ad insinuarsi nella mia testa…
E se non fosse così? E se, invece, i regali li comprava la mamma al negozio e poi faceva finta che li avesse portati lui? Lo dicevo pure ai miei due fratellini più piccoli. Ma loro se ne infischiavano sia di Babbo Natale che delle mie congetture.
E quando provavo a parlarne alla mamma non trovavo la minima soddisfazione ma solo quel: buona e vai a giocare che ho tanto da fare, che mi indisponeva al massimo.
E non riuscivo a capire come potesse non considerare importanti quelle mie insinuazioni.
Forse non voleva rispondere? Probabile. Ero gelosa dei fratelli che si prendevano tutte le sue attenzioni solo perché erano più piccoli di me ed io invece piccola non sono mai stata. A causa di questo carattere che mi porto ancora appresso come un bagaglio del quale non ci si può disfare.
Un carattere puntuto, ecco si, puntuto ed esigente. Mia madre diceva così e aggiungeva: anche un tantino troppo ribelle, per i suoi gusti.
Invece per il nonno ero tutt’altro. Ero una bambina come non ne esistevano al mondo, in tutto il mondo. Per lui, s’intende. Quello dei miei otto dubbiosi anni, fu anche il suo ultimo Natale in questo mondo.
Arrivò presto, la mattina della vigilia, in sella alla sua bicicletta nuova fiammante. Facemmo colazione assieme, tutti riuniti: mamma, fratelli, nonno e io. Papà rientrava in serata e non c’era, come spesso succedeva.
Il nonno non mi considerava la “grande” ma la sua piccola. E con lui non dovevo competere coi fratelli per ottenere attenzione. Al contrario, loro venivano dopo. Giustamente pensavo io, ero arrivata prima, come mi si poteva mettere in coda?
Siamo andati in piazza del paese a comprare l’albero. Abbiamo girato per i negozi fino a che non abbiamo trovato quello giusto. Perché il nonno era pignolo.
Era bello, il nonno. Non aveva ancora compiuto sessant’anni e aveva tutti i sui bei capelli scuri appena brizzolati sulle tempie. Alto e slanciato e con quell’aria fine, quasi timida ma al tempo stesso sicura di sé.
E gli occhi! Erano stati gli occhi a fare innamorare la nonna. Me lo aveva raccontato lei. Gli occhi e il sorriso…quei denti… così tanti e tutti raggruppati in bell’ordine dentro quella bocca così poco incline al sorriso, se non appena accennato, ma che rifulgeva di luce candida come la neve che aveva cominciato a scendere e che si stava appoggiando silenziosa sulle cime degli alberi, lenta ma sempre più fitta.
E cominciava a posarsi anche sull’albero che il nonno aveva appoggiato sulla canna della bicicletta.
Abbiamo camminato fino a casa, il nonno controllava che l’albero non si spostasse ed io con la mano nella sua, libera e il naso all’aria ad annusare il profumo della neve che cominciava a posarsi anche sulle nostre teste.
A casa, lo abbiamo messo nell’angolo predisposto già prima dalla mamma con un tavolino basso su cui appoggiarlo e una cassetta vicino, con dentro tutte le cose che ci andavano appese.
Avevamo comprato anche le lucette elettriche. Un filo verde lungo e arrotolato in una matassa da cui, qua e la, sporgevano dei lumetti vetrosi.
Abbiamo pranzato con riso in bianco e uova al tegamino. Il suo pranzo preferito, Era di gusti semplici e soffriva di stomaco. Per me era il cibo più buono al mondo.
Dopo pranzo ci siamo subito messi a preparare l’albero. Coi fratellini che correvano intorno al tavolo e facevano un gran chiasso. La piccola caracollando e lanciando stridule grida e il piccolo che faceva il verso agli indiani pellerossa che aveva visto in televisione e i due gatti di casa che li rincorrevano.
La mamma faceva un pisolino e non era della compagnia.
All fine dell’opera, al momento di attaccare la spina avevo le guance rosse per l’eccitazione e la gioia di quella giornata così magica. Quando l’albero si illuminò, i fratellini si fermarono ed emisero un ohhh stupefatto. Io no, ero parte in causa e avevo contribuito all’allestimento e non potevo mostrarmi troppo soddisfatta perché il nonno mi aveva insegnato che dobbiamo sempre lasciare che siano gli altri a dirci se abbiamo fatto bene. Non ce lo dobbiamo dire da soli. Sarebbe presunzione. Che non capivo bene cosa volesse dire. Ma obbedivo e tacevo anche se il mio ohhh era soffocato e interiore ed era più sonoro di quanto non avrebbe potuto se si fosse anche sentito.
Poi il nonno tornò a casa sua perché si era fatto pomeriggio tardi, era buio e la neve continuava a scendere e aveva qualche chilometro di strada da fare.
E me lo figuravo, seduto in sella alla sua bella bicicletta nera, dritto, impettito col bel fanale acceso che illuminava la strada e lo sguardo felice e il cuore allegro, pieno di quella bella vigilia passata con me e il resto della compagnia che era altrettanto importante anche se io non lo avrei mai ammesso.
E immaginavo il segno delle ruote sulla neve che piano, piano scompariva al suo passaggio ricoperto da altra neve che continuava a scendere lentamente. E l’ho lasciato lì, in quel pomeriggio della vigilia di un Natale di tanti anni fa, con l’albero illuminato e la sua bella faccia sorridente solo a metà.
Puntuto ed esigente, pure lui.
Babbo Natale arrivò e trovai i regali sul tavolo in cucina e la scodella del latte vuota e neppure un biscotto.
Ha bevuto e mangiato, pensai, forse aveva ragione la mamma.