Compagno di viaggio

Ci sono dei luoghi, come persone, ai quali lasci un pezzo dell’anima. E ci sono luoghi che hanno essi stessi l’anima. E non la ritrovi la tua anima, quella che lasci nei luoghi o nelle persone, mai.
Resta con loro e ti manca per sempre e per quanto ti sforzi di metterci una toppa trovi sempre che non è mai adeguata e rimane sempre fuori qualche pezzettino che gronda sangue.
Un luogo può diventare solo un ammasso di ricordi, alla rinfusa, senza precisi contorni.
Soprattutto quando quel luogo è scomparso o è stato stravolto nel tempo. E non ci lasci solo un pezzo d’anima ma anche un pezzo di cuore. Lo sai che non ti sarà mai restituito ma non riesci a fartene una ragione.
Perché ragione non c’è. E’ irragionevole non dimenticare, lasciare che un luogo o una persona ti tengano per sempre prigionieri ma non puoi farci niente. Ti insegue ovunque quel brandello di anima e ti ritrova sempre e ti chiede disperata di essere riammessa a far parte a pieno titolo dell’anima intera ma non si può più riattaccare quel pezzetto, non esiste collante che possa riuscirci, non combacia più, non fa più parte di te è spurio, è irrimediabilmente alieno.
Tanto tempo fa, ma il tempo è sempre tanto anche dopo un solo minuto, anche un secondo,
quando ti allontani da te. Perché quel posto mi corrisponde mi si attaglia è un abito del quale mi sono spogliata e che ho lasciato li, per terra e non ho mai più potuto raccoglierlo. Ed è rimasto così per tanto tempo o anche solo un minuto o un secondo o un’eternità. Non importa.
Sta li. Il posto, le persone, l’anima e le anime, mie e loro. Fuse e allo stesso tempo sciolte da
qualsiasi vincolo.
Mi hanno portata via da li e anche quando ci sono ritornata, dopo, quel luogo era ogni volta
diverso, non mi apparteneva più. Si era allentato quel legame. Non era dipeso da me che ero
troppo piccola per decidere ma i posti sono permalosi, quasi quanto le persone e non dimenticano mai. Quando li lasci, li hai lasciati e non è più niente come prima. E spesso non ti riconoscono o fingono di non conoscerti per non lasciarti illusioni, per allontanarti dal dolore. E’ li l’anima dei posti, in quel dolore.
Non si misura il dolore.
Come descrivere un posto che trattiene un pezzo della tua anima? E perché? Farebbe male
descriverlo, sarebbe come girare un coltello in una ferita che non si è mai rimarginata.
Eppure anche i ricordi dolorosi contengono delle verità che sarebbe giusto che scoprissimo. Ma se le tengono molto ben strette, le difendono perché i luoghi sanno, conoscono e capiscono tutto.
Ma, spesso, tacciono. Hanno ragione. E’ meglio tacere perché tanto non capiremmo o potremmo equivocare e sarebbe ancora più doloroso.
La verità dei luoghi rimane scritta nella loro anima. Io l’ho cercata per tanto tempo e la cerco
ancora. Ma so che non la troverò mai. O forse è anche questa una speranza, sperare di non
trovarla mai la verità. Più di cosi non potrebbe far male la verità che non conosciamo. E allora a che serve cercarla? Per farci del male. Perché farci del male è anche un modo per soffrire di meno che aspettare che sia qualcosa al di fuori di noi a farcelo. Perché tanto, soffrire per soffrire preferiamo soffrire per cause che dipendono dalla nostra volontà piuttosto che da quella di estranei.
Siamo tutti estranei. Sempre, Siamo unità di dismisura. Siamo disuniti anche quando crediamo di essere uniti. Io, tu, noi, voi etc. etc.
E sono i luoghi quelli che potrebbero unirci ma quando li lasciamo non si fanno più riprendere e noi restiamo o diventiamo estranei a noi stessi per sempre.
Quello era il mio posto. Ma non hanno voluto riconoscerlo e non si è trattato solo di portare via una bambina da un luogo che aveva imparato ad amare e che avrebbe sofferto se ne fosse stata allontanata. Si trattava di molto di più. Ma ormai, cosa serve andare ancora a rinverdire quel dolore, cosa serve riportarlo in vita?
Quel dolore è simile, molto simile ad altri dolori che sto cercando di allontanare, di annacquare di rendere inoffensivi. Ma, forse, non posso e non voglio allontanarli perché sarebbe come allontanarsi ancora e, forse, per sempre da quel luogo.
Non lo descriverò per quello che era o quello che era o è nei miei ricordi. Non voglio riportare a galla quei sentimenti di rabbia, di esclusione, di irrefrenabile e incontenibile amarezza che non percepivo allora, non subito almeno, dopo l’allontanamento forzato. Perché non lo sapevo che era un addio, definitivo addio, addio per sempre anche se ci sarei ritornata, molte volte e avrei rivissuto le mie prime emozioni nell’accostarmi alla mia vita, non ci sarei ritornata più come un vero ritorno.
Ma voglio tornarci per provare a capire dove precisamente tutto è cominciato e dove, senza
volere, ho imparato la sofferenza.
E’ cominciato tutto un giorno di giugno, la mattina molto presto. Una cerimonia, abiti della festa, qualche fiore, i miei nonni più agitati del solito, qualche dolce mai assaggiato prima e qualche bottiglia di un liquido giallastro e dolciastro, sulla tavola, sopra la tovaglia della domenica anche se non lo era.
Avrei voluto andarmene fuori, come sempre, a seguire il volo degli uccellini tra i rami del pioppeto, ad accarezzare il tronco ruvido e familiare del ciliegio che stava mettendo i frutti. Lo sentivo che mi chiamava attraverso le finestre spalancate. E a correre nel prato e cogliere i ranuncoli e le margherite e intrecciarli per farmene collane. E invece no.
E qualche persona estranea entrava, chiedendo “è permesso”? e i nonni a rispondere con larghi sorrisi:” siii, avanti, avanti..” E poi lui. Un uomo mai visto. E parlava e sorrideva e mia madre gli rispondeva e gli sorrideva, socchiudeva ogni tanto gli occhi e buttava all’indietro la testa e non si accorgeva di me.
Ed è li che è sparito, quel posto, in quei sorrisi. Ma io non lo sapevo, né avrei potuto immaginarlo piccola com’ero e fossi anche stata più grande non avrebbe fatto alcuna differenza. I bambini non decidono con chi stare sono sempre gli adulti che decidono per loro, per il loro bene e anche perché così va il mondo. Sono i grandi che sanno quel che è giusto e quel che è sbagliato. Quando lo sanno e quando non è, semplicemente, più comodo per loro.
Ma lo si sa che per quanto si cresca e si consideri e si giri e rigiri la faccenda e la si cerchi di
inquadrare in un contesto che faccia piacere a chi deve avere una visione globale, matura,
consapevole delle cose e non si sente in nessun modo in colpa per aver, anche inconsapevolmente ( ma non può essere mai così), causato della sofferenza diluita nel tempo e mai sedimentata ma rimasta sempre a galla, fa sempre male ricordare.
Eppure voglio ricordare per non lasciare che la vita che passa mi porti via del tutto quel pezzetto di anima ancora incastrata tra quei mattoni ormai sbriciolati e in quel terreno, ora arido, un tempo curato e fiorito e rifiorito e in quel paesaggio sconvolto, senza memoria. Se non la mia.

Nel pomeriggio di quel giorno, finita la cerimonia a cui io non ho assistito che solo casualmente partecipe a qualcosa che non sembrava interessarmi, gli invitati sono passati ai saluti, rapidi quasi frettolosi e siamo rimasti in ristretta compagnia, quasi tutti noti, tranne uno.
Quell’uomo. Lui era ancora li. E continuava a sorridere alla faccia sorridente, un po’ accaldata sotto al cappellino di pannolenci con una veletta grigia sollevata sulla fronte e la rosa sul taschino della giacca del tailleur color cielo che cominciava ad appassire, di mia madre.
Erano due, ora. Due che formavano una famiglia ed io appartenevo alla famiglia appena formata ma lo avrei saputo solo qualche tempo dopo, quando me ne resi conto pur nell’inconsapevolezza di quella prima infanzia che stava per accedere alla seconda, senza preavviso.
Due auto nere attendevano nella stradina. Lucide, invitanti. Si va a fare un giro. Mi dissero. Ma
appena dentro, sul sedile dietro accanto ad uno zio, il più giovane, dopo aver salutato i nonni che piangevano, già sentivo che mi mancavano.
Ora che ci ripenso e che rivedo la scena si sta facendo strada un accenno d intuizione sul perché di tante cose.
Per esempio perché, da sempre, ho dei lievi sobbalzi al cuore ogni qualvolta ho l’impressione che qualcuno non mi stia dicendo tutta la verità? O che non mi stia precisamente mentendo, ma che non mi stia raccontando le cose come andrebbero raccontate.
Credo di aver sviluppato un intuito particolare verso le bugie o le mezze verità. Mi sale quella
stessa inquietudine che provai allora, solo qualche giorno dopo quella cerimonia e quel viaggio nell’auto nera fiammante e quei sorrisi reciproci. Distanti da me.
Poi me lo dissero, infine, che io ero la bimba di casa e loro due mamma e papà. Già. Di una lo
sapevo dell’altro neppure lontanamente lo immaginavo.
E si che di immaginazione ne avevo e ne ho.

Mi dissero in tanti in seguito, dopo, durante e anche molto dopo, persino ora, che è tutto apposto, cosa vai a rimescolare? Cosa vai a tirar fuori? Ritieniti fortunata e basta così.
Ho scoperto in cosa consiste la fortuna. E’ una scoperta recente, recentissima. Proverò a spiegarlo.
Forse non sarò esauriente la materia è troppo vasta, ma per me la fortuna è capire quando è il momento di smettere di cercare e trovare dentro di noi il compagno di viaggio che cerchiamo tutta la vita. E se anche lo troviamo non è detto che non ci serva l’aiuto della nostra forza interiore che tutti abbiamo ma,a volte, lo scordiamo e ci disperiamo. La fortuna è dunque scoprirlo e
trasmetterlo anche agli altri che percepiscono quella forza e serve anche a loro per avvicinarsi alla propria.
Di quel luogo restano solo una spianata di cemento e qualche albero orfano e macilento. Intorno: strade. Strade che non portano in nessun luogo se non hai già un luogo dentro che ti accompagna nel viaggio.

2 commenti su “Compagno di viaggio”

  1. Bel racconto, molto toccante, espone sentimenti universali che ciascuno di noi possiede dentro di sé. Chi di noi non conosce un luogo o episodi che trattengono “un pezzo della propria anima”?
    Che siano un albero, un giardino, una strada, un ritrovo, un incontro, un addio, una casa, un paese, o altro, non importa.
    A tale proposito mi piace citare una bella poesia di un mio concittadino, il poeta Giuseppe Villaroel,

    Casa di mia gente
    Sempre ritorno fra le tue pareti,
    come a un rifugio, o casa di mia gente!
    Nessuno albergo mai, nessun ostello,
    per varie plaghe, fu più seducente
    del tuo silenzio, ove, dal lungo esilio,
    vengo a sanarmi d’ogni mia ferita,
    in colloquio coi morti che mi amarono
    perché nacque da loro la mia vita.
    Tu sola ridi, o casa di mia gente;

    tu sola resti, in mezzo alla rovina
    di tutti i sogni miei tristi e mendaci,
    nell’ora “di mia vita che declina!
    Tu sola vieni, o casa di mia gente,
    al mio ricordo ed alla mia speranza,
    e, nel mio folle errore senza quiete,
    questa sola dolcezza oggi mi avanza.

    Tornerò bimbo sulle tue terrazze,
    guarderò, nelle notti, le tue stelle
    tremare sulle torri delle chiese;
    ci sarà il canto delle mie sorelle,
    ci sarà l’ombra di mia madre e il grido
    del vecchio gallo, all’alba, nei cortili
    e, dalle tue finestre, nell’azzurro,
    vedrò spuntare i rinascenti aprili.

    E sarà la mia gioia e la mia pace:
    l’unica gioia che può dare il mondo
    l’unica pace che può dar la vita:
    vivere sotto il bel sole giocondo
    di nostra terra, quello che ci fulse
    negli occhi quando noi fummo creati
    e morire così, serenamente,
    accanto ai nostri morti e ai nostri nati.
    R
    molto bella questa poesia.

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  2. Molto bello e vero il racconto e leggerlo mi ha riportato alla mia infanzia rispolverando ricordi anche dolorosi e a volte riscoperti sotto una luce diversa più intensa da adulta ma con la consapevolezza di aver vissuto in tanti luoghi con compagni di viaggio che mi hanno accompagnato nel mio luogo interiore l’unico luogo veramente speciale.
    R
    grazie Carmela di questo bel commento.

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