Ho scoperto una cosa, questa mattina svegliandomi ho pensato: ma perché esiste la cattiveria? Che domandona penserà chi mi legge. Esiste da quando esiste l’uomo e la cattiveria si basa principalmente sull’invidia e sulla gelosia. Sulla incapacità di provare empatia, cioè di mettersi nei panni dell’altro.
Da questo nascono le discussioni, le ripicche , le lotte nascoste o palesi le guerre: dalla incapacità di provare empatia. Non ne siamo più capaci. Siamo quasi insofferenti al prossimo. Forse perché siamo insofferenti a noi stessi? Cercare empatia nel prossimo, nelle persone, siano esse familiari o estranei è una cosa che viene spontanea, che ci fa sentire partecipi di una comunità.
Un “luogo comune” dove più persone possono ritrovarsi e parlare tra loro dei loro problemi, di ciò che li affligge, oppure di cose banali come il rincaro dei prezzi (che tanto banale non è).
Insomma il “terzo posto” individuato da due sociologi americani e che starebbe tra la casa e il posto di lavoro. Un posto dove ricreare una parvenza di socialità che non sia per forza il bar.
Un tempo i bar erano preclusi alle donne, oggi no, ma dopo il Covid c’è ancora una certa ritrosia a frequentarli assiduamente perché la paura del contagio è rimasta sottotraccia. Io, se ci vado, preferisco rimanere all’esterno ma per poco e di sfuggita perché fuori, non è come all’interno, fuori ci si sente a disagio, come in un non luogo, troppe distrazioni impediscono anche solo di pensare di accennare ad una minima conversazione con un vicino sconosciuto.
Un parco, ad esempio, un tempo forniva la possibilità di incontrare persone, di fermarsi magari a scambiare due chiacchiere sul più e il meno, ma oggi è tutto cambiato. Ho come la sensazione di dovermi girare continuamente per vedere se arriva qualche pericolo da dietro, come ad esempio un grosso cane lasciato libero di sfogarsi dal padrone poco intelligente poco ligio alle regole, oppure di essere travolto da qualche monopattinatore che fa lo slalom lungo i vialetti anche se sarebbe proibito.
Le proibizioni non piacciono a noi italiani, abbiamo preso una sbornia di democrazia e la mettiamo dovunque come il prezzemolo: non accettiamo regole, né diktat, neppure suggerimenti E rompiamo relazioni e amicizie solo perché l’altro rappresenta in qualche modo una “costrizione” ad uniformarsi a qualche minima regola legata al relazionarsi, come ad esempio l’empatia. Non esiste più. Le persone si scambiano sguardi sospettosi di sghimbescio e si nascondono dietro agli smartphone, quegli aggeggi infernali dietro il cui schermo acceso si trova il famoso terzo posto andato perduto.
I social rappresentano un’ ancora di salvezza per chi non sa come fare per socializzare con chiunque persino coi familiari più stretti o con gli amici. Basta guardare le coppie in giro per la strada, ognuno a guardare lo schermo o al massimo a scambiarsi reciprocamente le immagini da esso riprodotte. Ma sono, al contrario, la negazione della socialità che ha bisogno di persone “vere” per funzionare. C’è bisogno di guardare negli occhi per capire se si può socializzare o meno. Gli occhi sono importanti, nei social o anche nei blog, non si vedono.
Ecco. manchiamo di occhi nei rapporti interpersonali e scarichiamo frustrazioni, invidia, cattiveria e mancanza di empatia su chiunque ci capiti a tiro perché non sappiamo più guardarci e non possiamo più farlo perché ne abbiamo paura. Perché in fondo tutti temiamo negli altri la mancanza di empatia. Temiamo la cattiveria che possa arrivare a penetrarci l’anima e a farci del male.
Per la strada, nei bar, nei luoghi cosiddetti “comuni” nessuno si guarda più negli occhi, temiamo lo sguardo, lo rifuggiamo, abbiamo paura di vederci diversi dall’immagine che ci siamo costruiti nel tempo di noi stessi.
I confronti sui blog, su questo o altri, non sono mai “veri”, sono solo simulacri di interazioni ma in realtà nascondono molta frustrazione e rabbia perché nascondono gli occhi delle persone con le quali si interagisce. Uno sguardo può dire molto di più di tante parole. Si può trovare empatia in uno sguardo molto più che in mille sterili discussioni.
Qualche giorno fa sono caduta per la strada, ho messo male un piede e sono scivolata dal marciapiedi, ero distratta, pensavo a come siamo tutti soli (anche se in compagnia) e compresi solo delle nostre vite e di quello che ci potrebbe succedere e gli altri sono fantasmi che passano nella nostra vita (tranne pochi intimi),chi più chi meno con indifferenza e a volte persino con antipatia.
Ma mentre venivo aiutata a rialzarmi da due giovani uomini che sono accorsi in mio aiuto subito e non mi hanno lasciata andare a prendere la mia macchina prima di essersi accertati che stavo bene, ho pensato che forse non è tutto perduto. Che possiamo ancora riappropiarci del “terzo posto” partendo da noi stessi e provando a guardare la gente negli occhi.
Da oggi proverò a “guardare negli occhi” chi entra qui, in questo spazio dove sto provando da anni di trovare il terzo posto e dove ho l’impressione di non trovarci che “passanti” distratti e senza empatia tranne qualcuno che ringrazio di cuore e spero non me ne voglia se oggi lo “costringo” a leggere questa lunga manifestazione di frustrazione che provo al punto che mi metterei a piangere.
E, mi dicono, che piangere faccia bene. Ci provo. Grazie per aver letto.