Pubblico questo bel racconto di Alessandro per evadere dalla routine (e anche monotonia) della politica e dei fatti di guerra.
E’ il racconto di una gita recente ma richiama alla memoria tempi lontani e però più che la preistoria (come scrive l’autore), a me ha dato l’impressione di trovarmi in quel medioevo descritto in maniera cosi originale nel film di Troisi e Benigni: “Non ci resta che piangere”.
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Mi sono messo in viaggio, destinazione Centuripe, motivato da una mostra di pittori del ‘900 lì allestita, tra i quali mi attirava soprattutto il pittore siciliano di Bagheria, Renato Guttuso.
In realtà, ben presto, lungo la strada, lo scopo primario del viaggio è passato in secondo piano, quando dinanzi agli occhi, come in un di quei sogni che si scambiano per realtà, mi si è parato dinanzi gli occhi, uno scenario antico e selvaggio quasi sorto dall’abisso della preistoria.
L‘ultimo essere umano che avevo incontrato, uscendo dal casello autostradale, mi aveva indicato la strada, un’antica provinciale che si inerpica fin oltre i settecento metri, con un fondo stradale logoro, un tragitto appena tracciato, tormentato di curve, tornanti, saliscendi, bordi scoscesi. Un percorso che si incunea in un paesaggio brullo, deserto, tra rocce antiche corrose, avvallamenti, spuntoni, creste, dirupi, speroni, pietraie.
Più procedo e meno probabile sembra che alla fine possa giungere alla meta, e che superato un costone possa apparire un qualsiasi centro abitato, perché, dopo averlo doppiato, ne appare subito un altro, e poi ancora un altro. Ma segni di vita niente, nemmeno un casolare che dia speranza di una presenza umana, e tutto intorno è silenzio, rotto solo dal gemere del motore e delle ruote che slittano sul terriccio .
Ma ecco, dopo l’ennesima curva, finalmente si apre un’ampia vallata dissemina di puntini bianchi, e realizzo la presenza di un gregge di pecore che pascolano sotto il sole cocente, immobili come in un fermo immagine; e poi ancora più su, mi si presenta alla vista un altro sprazzo di vita costituito da una mandria di buoi, anch’essi numerosi e silenti: ed ecco il pastore e il mandriano, entrambi dalla pelle bruciata e la barba incolta, prendere l’aspetto dell’uomo primitivo che vi abitò nelle notte dei tempi, l’uomo di stirpe sicula, il popolo di cui si ha notizia vivesse in origine in questi luoghi, in lotta con gli elementi naturali e l’assalto di altri uomini provenienti da varie parti del mondo.
Poi, di nuovo pietre, declivi, rupi minacciose, finché un massiccio, somigliante alla spina dorsale di un enorme dinosauro, si approssima, e pare impossibile poterlo superare senza rimanerne inghiottiti, facendomi piombare ancora più nel buio della preistoria. Mi chiedo, cosa ci sarà dopo? Ci saranno gli animali preistorici? Gli uomini dell’età della pietra? Ci sarà infine quest’antica Centuripe? Questo sito archeologico così ignorato e pur famoso i cui reperti archeologici si trovano perfino nei musei di New York, Londra, Berlino?
Ho perso la nozione del tempo quando dopo un tornante, ancor lontanissimo, e ancora troppo in alto, quasi inarrivabile, come fosse incastonato nella pietra, scorgo un nutrito nucleo di case ammassate l’una sull’altra: è la mia meta finalmente, l’inarrivabile Centuripe, mi pare che debba scomparire come fosse un miraggio e trovo quasi impossibile giungere fin lassù. Eppure l’auto non mi tradisce, riesce a superare l’ultima curva, e le prime rare case appaiono come d’incanto, poi più fitte scorrono basse una dopo l’altra, con piccole porte serrate, usci socchiusi e sguardi di anziani a scrutare, tra vicoli sempre più stretti, scalinate ripide, salite sfiancanti, scivolose discese. Un mondo che a poco a poco si anima di gente, di botteghe, di negozi, di auto in lento movimento o in sosta nelle minuscole piazzette. Giunto ad una balconata lo sguardo spazia su di un immensa massa turchina che si staglia nel cielo azzurro e terso: è il gigante Etna, mai visto così imponente e spaventoso, quasi a protezione e insieme minaccia del paese, la stessa immagine che videro e forse adorarono come un dio gli antichi abitatori di quei luoghi,
Alla mostra, una giovanissima guida illustra le opere d’arte esposte con parlare sciolto che seguo a malapena ancora stordito da quel tuffo nella preistoria, da cui mi risveglia un quadro di Guttuso: si intitola “Massacro”, un impasto di corpi contorti e martoriati che richiama, ma solo concettualmente, l’immortale Guernica.
Inevitabile l’accostamento tra quegli uomini primitivi sempre in lotta per la sopravvivenza, e il nostro tempo coi suoi cataclismi e i pericoli di guerre atomiche che quella sopravvivenza mettono in pericolo.
E mi sovvengono quei versi di Salvatore Quasimodo:
“Sei ancora quello della pietra e della fionda
uomo del mio tempo (… )
t’ho visto, eri tu con la tua scienza esatta
persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo.
Hai ucciso ancora, come sempre…