Dell’arte, credo, ognuno ha una propria opinione. Qualche giorno fa, su questo blog, un commentatore ha scritto che non gli piacevano i versi di una nota poetesssa polacca, che li trovava infantili e buoni per farci filastrocche per bambini.
Un’ opinione. Un’altra opinione, al contrario, dice che quella è assolutamente poesia, perché poesia è quello che si riesce a trasmettere e trasmettere o comunicare è arte.
L’arte parla. Che sia poesia, pittura, fotografia, murales, musica, o quale che sia altra forma d’arte, deve parlare a chi le si accosta.
La poesia di Wislawa Szymborska, ha parlato al lettore che non l’ha trovata sufficentemente “artistica”. Gli ha parlato e ha comunicato. Cosa non importa, rimane il fatto che lo ha fatto riflettere.
L’arte, per essere tale deve far riflettere.
E che cosa vuol dire “riflettere”?
Vediamo il significato della parola: (una delle definizioni che ne da Treccani: “) Ripiegare, rivolgere la mente su un oggetto del pensiero; quindi, considerare con attenzione, ripensando e meditando: rifletteva sulla sua imbarazzante situazione; ci ho riflettuto, ho deciso di non partire; riflettici bene, e poi rispondi; rifletti a ciò che ti dico; …
Dunque? L’arte aiuta a riflettere a rivolgere la mente su un “oggetto del pensiero”. E che cosa succede quando riflettiamo?
Provo a descrivere che cosa succede a me quando rifletto.
Essendo decisamente una persona impulsiva per indole, rifletto poco, parto piuttosto in quarta. Decido, scelgo, elimino, abbastanza di acchitto.
Ma non sempre. Con gli anni ho imparato a riflettere un po’, quel tanto, ma neppure troppo.. A mia madre e anche a mia nonna che mi dicevano di contare fino a dieci e poi tacere, va il mio grazie, ma care nonna e mamma, non l’ho ancora imparato, temo.
Ecco perché, qualche volta scrivo quelle che si potrebbero definire poesie se fossi abbastanza presuntuosa da definirle tali, ma non trovo un’altra parola e quindi le definisco cosi. Altri potrebbero definirle altrimenti, ma fa nulla.
Sono belle? Sono brutte? Ecchiseneimporta? Per molto tempo provavo molta ansia al pensiero che altri potessero leggerle e poi, piano pano e con l’aiuto di una zia, ora novantaduenne, alla quale con molta parsimonia mi sono decisa a rivelare il mio segreto, sono riuscita a riflettere su questa mia paura.
Ci ho pensato a lungo (anni) e poi ho deciso. Chi le vuole leggere le giudichi come gli pare, la poesia come ogni altra forma d’arte è sempre sottoposta al giudizio degli altri altrimenti rimane “lettera morta” e non ha senso. Muore d’asfissia dentro cassetti chiusi ermeticamente.
Mi sono anche cimentata nella pittura. Ci ho provato e mi piacerebbe anche riprovarci, ma non sono portata per la manualità, o forse è solo pigrizia o anche paura, la stessa che provavo quando pensavo alla vergogna che avrei provato se altri avessero letto i miei “versi”.
Ricordo un mio professore di arte, il quale davanti ad un mio disegno rimaneva sempre a lungo perplesso e poi sentenziava: “Gazzato, ci hai messo impegno, si nota, molto bene, ma dimmi la verità, ci dormiresti tu dentro una camera come quella che hai dipinto”?
Non lo so, non sarà stato lui a farmi passare la voglia? Meno male che non gli ho mai letto una mia poesia!(Ma forse allora ancora non avevo neppure il coraggio di provarci).
Però, andando oltre, a mio parere l’arte ha influenzato sempre la vita di tutti, perché arte è vita e vive in mezzo a noi anche se non la “vediamo”.
Tutti i regimi totalitari si sono sempre serviti degli artisti per la loro propaganda, ma gli artisti sono, necessariamente, spiriti liberi e se hanno aderito alle esigenze di dittatori di magnificare e glorificare la loro ideologia malata, si sono anche “vendicati” producendo opere d’arte di immenso valore proprio perché l’arte tende al cielo e cielo è libertà, spazio, conquista, beatitudine…
L’arte quindi è la massima espressione di libertà
Anche costretta, l’arte, comunque vola.
E se qualcuno trova che una poesia o un quadro siano “brutti” (oggettivamente ci esempi di vere brutture, lo ammetto ma è pur sempre un’opinione) sarà forse perche “riflette” qualcosa di “brutto” che sta dentro di noi e ci disturba e dovremmo ” riflettere” e scoprire cosa sia.
Non a caso molti grandi poeti e pittori avevano la propensione ad essere “stranI” a non conformarsi alle regole della società, a volere, fortissimamete volere, divenire quello che intimamente sentivano di essere.
Quindi l’arte può essere anche una forma di “pazzia” che esce dagli schemi prefissati per spaziare nel cielo delle infinite possibilità di “creazione”.
E che cos’è l’arte se non la possibilità data all’uomo di partecipare, in qualche modo, anche piccolo, anche apparentemente insignificante, al grande “Disegno”?
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Tratto da “La fine e l’inizio” della grande poetessa polacca:
Non ce l’ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.
Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d’erba, se oscilla,
è solo al vento.
Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sulle acque
abbiano di nuovo con che stormire.
Prendo atto
che la riva di un certo lago
è rimasta – come se tu vivessi ancora –
bella come era.
Wislawa Szymborska
L’arte e qualcosa di indefinibile, deve essere libera, ma non è libertà, deve comunicare qualcosa, ma non è un messaggio, deve esprimere un sentimento ma non è un atto di amore, deve commuovere ma non è un pianto, deve volare nello soazio ma non è un aereo.
Insomma, l’arte è arte.
Bella la poesia della polacca dal nome impronunciabile, ma che riesce perfettamente a comunicare la delicata malinconia per chi non c’è più
Questi discorsi sono troppo elevati per la mia modesta cultura.
Risposta
eddai lei scherza vero?
Sullo stesso tema della poesia della Szymborska, su riportata, una poesia di Giovanni Formisano, in dialetto siciliano
Li suli si ‘nni va
Li suli si ‘nni va, dumani torna,
pari ca s’addurmisci la natura,
lu munnu è a luttu ma dumani agghiorna
e arrusbiggia li munti e la chianura!
Un triste Jornu ti ‘nni jsti tu
li suli torna e tu non torni cchiù!
Li suli si nni va, lassa lu chiantu
dintra lu cori e la malincunia
e l’acidduzzu fa l’ultimu cantu
mentri li cielu perdi la chiaria!
La prima stidda rispittusa spunta,
nica nichitta e pari ca s’affrunta
La crisiudda ccu la so campana
sona la virmaria e lu saluta
Iddu passu passiddu s’alluntana,
senti l’ultimu sonu e poi s’astuta!
Dumani torna, ma non torni tu
t’aspettu sempri e tu non torni cchiù!
Non credo sia necessaria la traduzione.
Risposta
Bella, beh, io ho capito, poi non so, comunque per par condicio ecco qui una poesia in veneto
de Maurizio Mason da Silvelle de Trebaseleghe (PD)
Me mare me g’ha assà ‘a vita,
a me g’ha fato cressare;
me pare me g’ha insegnà a vivarla, ‘sta vita,
co’ i so’ intopi, co’ e so’ paure…
Ricordo me nona, vecia, tuta storta,
che a rideva, smissiando ‘a puenta,
no a ghe xé pì, desso a xé morta.
Ma ricordo anca me nono, col so’ toscan,
el me voea ben, el me imbrassava.
El xé ‘ndà via anca jù, desso el xé lontan.
Me ricordo l’odore de chél fen,
che petài dal caldo ‘ndàimo a smissiar,
vedo, vedo ancora i fiori dea primavera
che i se sarìa dissipai, doman.
I toévo su, i vardavo, i nasàvo.
I jera come mì e tì, bèi desso, doman fiàpi.
A xé a vita. Fata de minuti, de ore,
de mesi, de ani, se te vói.
Ma che a passa so un attimo.
Cossa restarà de mi e ti,
dee nostre corse, dei nostri pianti.
Cossa restarà de ‘na vita
che no g’ha senso
sensa un Dio che te juta,
che te ciape par man
come che féa mé mama.
Cossa restarà de un cuore cativo
ma che pianze, che pianze se el ripensa
a ti mama, dove sito,
a ti pare, torna qua!
I fiori dea primavera.
Doman i xé dissipai!
Serve traduzione?
E una bella poesiola algerina , no?
Risposta
e perché no?
Non serve la traduzione, bellissima e commovente poesia, nella sua semplicità e nella musicalità del dialetto veneto. Certo confrontando i due dialetti si percepisce la distanza di mille miglia e della diversa storia che le due regioni hanno vissuto, ma entrambi sono Italia.
Anch’io voglio dare il contributo, eccolo:
Trilussa
La tartaruga
Mentre una notte se n’annava a spasso,
la vecchia tartaruga fece er passo più lungo
de la gamba e cascò giù
cò la casa vortata sottoinsù.
Un rospo je strillò: “Scema che sei!
Queste sò scappatelle che costeno la pelle…
_ lo sò rispose lei_ ma prima de morì,
vedo le stelle.
Risposta
incantevole.
Il pettirosso
Che avrà quel pettirosso che vola cosi basso?
Forse vuole mangiare, ma c’è poco da fare,
ha nevicato tanto la notte di Natale
che tutto è così bianco e lui è così stanco.
Ha freddo e su quel ramo si sente tanto strano.
Cerca, gira lo sguardo e poi, di quando in quando,
sente il suo piccol cuore scuotere nel tremore.
Allora si alza in volo, si sente così solo.
Cos’è questo richiamo che viene da lontano?
Chi canta così piano?
E allor, d’un tratto scorge un ala che si sporge,
un’ala bianca e grande che subito lo prende
sotto il suo caldo tetto, un rifugio perfetto!
Si sente più al sicuro or che si è fatto scuro.
Ma ha fame, è disperato, non ha quasi più fiato.
Allor risente il canto che risponde al suo pianto
e all’improvviso scorge un becco che gli porge
un bel pezzo di pane, giusto per la sua fame.
Lo mangia avidamente, più forte già si sente.
Il canto è ormai cessato, lo sguardo illuminato
da una luce ridente, vede quel pettirosso
che or non ha più tremore chi è venuto a salvarlo
chi ha pensato a sfamarlo.
E’ una bianca colomba!
Mentre l’aria rimbomba di canti di Natale,
il pettirosso sale su quel ramo più alto pronto
a spiccare il salto.
PS: questa, a scanso…, è una filastrocca per bambini.
X Serena: Serena sei un mito! Dopo un’improbabile polacca, incomprensibili siciliani, imbarazzanti veneti e dilettanti allo sbaraglio con tanto entusiasmo ( ma l’entusiasmo non basta a metter giù dei versi decenti) con Trilussa ci hai dato una gioia. Quando era Proietti a leggrrlo, si volava alto. Che sottili gioir! Grazie del regalo.
Bella la filastrocca del fortunato incontro tra il pettirosso e la colomba, quasi una favola di La Fontaine, di cui riporto la storia di un incontro meno fortunato tra un uccello e un cacciatore:
Ferito mortalmente in mezzo al core
imprecava un Uccello all’aspra sorte,
e diceva, inghiottendo il suo dolore:
“A noi stessi procacciam la morte!
ché non saria così presto e fatale,
se delle nostre penne
non rinforzasse il cacciator lo strale.
Razza crudele! ci consola in fondo
il veder questa gente altera e scaltra
che, da che mondo è mondo,
una metà sempre distrugge l’altra”.