In questi giorni tristi e pieni di angoscia, ho provato ad immaginare come sarebbero le nostre città, paesi, borghi, villaggi, senza i negozi, gli esercizi pubblici come i bar, i caffè, le pasticcerie, i ristoranti, pizzerie, paninoteche, etc.etc. e mi sono venute in mente alcune scene della mia prima infanzia.
Con la mamma o con la zia, andavamo a passeggio a Rialto, prendevamo la gondola che ci portava sull’altra riva e poi, dopo aver comprato della frutta al mercato (il variopinto e impagabile mercato di Rialto), ce ne tornavamo con la rete piena di frutti prelibati e profumati verso casa. Ma lungo la strada era impossibile resistere al profumo che usciva da quei luoghi di delizie. C’era una pasticceria a Rialto dove ci fermavamo spesso. Entrarci, per me bambina, era come entrare a Disneyland.
Ci accoglieva il profumo inconfondibile del caffè appena uscito dalla macchina o appena tostato, delle paste di mille colori ordinatamente allineate dietro al vetro, sul banco. D’estate ci sedevamo fuori ad un tavolino rotondo, di ferro, con sopra la zuccheriera e il portatovaglioli di carta, d’inverno sulle poltroncine in vimini accanto al banco e ad un tavolinetto di legno con le gambe intarsiate.
Mia madre prendeva il caffè con un bignè al cioccolato, io un’aranciata con la cannuccia e una pasta alle mandorle, la mia preferita.
Era un momento bellissimo ed uno dei pochi bei ricordi della mia infanzia. Non sembri patetico, ma era uno di quei momenti che vorresti fermare per sempre perché poi la vita cambia e porta lontano lontano le persone che più ami.
Ora ci sono forse anche troppi di questi luoghi che affollano i marciapiedi e qualche volta passando li mandiamo a quel paese.
Ma, mi sono chiesta in questi giorni, come sarebbero le città se loro non ci fossero più?
Sarebbero deserte e desolate.
Pensiamo a quanti capolavori sono nati ai tavolini dei caffè, nella città più grandi del mondo ma anche in cittadine o borghi dove è difficile arrivare.
Pensate a quanti artisti hanno composto le loro opere proprio mentre se ne stavano seduti in un bar, guardando fuori dalle vetrine appannate, oppure seduti in un divanetto appartato ad ascoltare i discorsi della gente.
Tante, cosi tante che non riusciremmo a ricordarle tutte.
Sarebbero deserte e desolate e non offrirebbero conforto a tanti che non vivono in città ma che ci stanno per studio o lavoro e che trovano in quei luoghi quasi una seconda casa, qualcuno con cui scambiare due parole e che ti fa un sorriso, anche mercenario, si anche quello a volte basta per riscaldare un po’ il cuore di chi si sente solo in una città che non conosce.
E cosa farebbero i tanti anziani che frequentano abitualmente i bar nella piazza del paese e che si ritrovano per la partita a carte o per fare le classiche due chiacchiere, sul tempo, sui soldi che mancano sempre, sul lavoro che i figli o i nipoti hanno perso e sul governo, che è sempre ladro, maledettamente ladro sia che piova o che ci sia il sole?
Perciò, in questi giorni ho messo da parte quel pizzico di fastidio che mi davano ogni tanto i locali affollati e ridanciani (magari rendiamoli un po’ meno invadenti, ridimensioniamoli un po’), perché è un lavoro spesso difficile, duro, a volte ingrato, sempre a contatto con la gente che non è sempre educata ma spesso proprio il contrario e sento di provare per loro un sentimento che assomiglia alla gratitudine e alla solidarietà perché soprattutto in questo periodo rischiano tanto, in molti sensi.
E se si “dimenticano” di darmi lo scontrino, lo chiedo, semplicemente e me lo danno con un “ah scusa, che sbadato” e magari anche con un sorriso al quale rispondo.
Gli credo? Mah, forse si o forse no. Ma io lo chiedo, sempre se non me lo danno e se è loro dovere farlo è mio dovere pretenderlo, altrimenti divento un pochino (molto poco) complice. E questo davvero non mi piacerebbe.
Perciò spero che presto tutto ritorni “normale” anche per loro, anzi, meglio di prima con ancora più igiene (quello non è mai troppo in certi casi) e con più rispetto da parte di tutti: di quelli che stanno dietro al bancone e da quelli che l’affollano allegramente o meno davanti.
Mariagrazia,
a proposito di bar e pasticcerie che ravvivano la vita di una città, qui a Catania ce n’è tanti, anche famosi, un tempo Caviezel (strano, uno svizzero tra i migliori pasticceri), il bar Lorenti, la pasticcerua Di Paola; oggi ancora fiorenti, Savia, Spinella, Mantegna, il bar Europa, il Gran Moritz…
Anche qui, un tempo, Vitaliano Brancati, e altri letterati tra scrittori e giornalisti, avevano il loro bar dove si ritrovavano per discutere, gustare un caffè, ammirare qualche bella dama, e trarre ispirazione per i loro romanzi o articoli di terza pagina.
A Lisbona, ricordo di avere incontrato al bar, seduto al tavolino, niente di meno che Pessoa: peccato non avergli potuto chiedergli l’autografo, era troppo assorto nelle sue fattezze di bronzo.