L’incomunicabilità descritta a tinte fosche e con notevole pedanteria, nei film di Antonioni (solo per fare un esempio), era una corrente di pensiero nata nell’immediato dopoguerra e sviluppatasi negli anni d’oro dell’economia italiana: i favolosi anni ’60.
Oggi sembra una cosa ridicola, del tutto superata dai mezzi moderni di comunicazione che sono di più di quanto si sarebbe mai potuto immaginare allora. Sono tanti e diversificati. Ma, servono davvero a comunicare?
E…comunicare che significa? Mandare dei messaggi, magari brevi, magari disarticolati, magari pieni di refusi, faccette ridicole, motti, lazzi…oppure veri e propri testi tematici dove si apre una discussione sui blog e da cui esce di tutto: dalle opinoni espresse con garbo, stile, educazione e sincera vocazione alla comunicazione, oppure rabbie inconsce o reiterazioni di sindromi infantili, o, persino, vecchie ruggini mai cancellate dall’anima che riaffiorano scatenando ire funeste verso il mondo intero?
Di più queste ultime. Vecchie ruggini di incomunicabilità repressa che sfocia in tutta la sua trattenuta veemenza tratteggiando profili, per lo più anonimi e nascosti dietro maschere di latta che si sfaldano via via che la (non) comunicazione diventa più intensa e che si instaurano inimicizie feroci o amicizie, perlopiù di comodo e intercomunicanti tra loro.
Si formano cosi vere e proprie “sette” dove gli adepti comunicano con segni convenzionali e si pongono armati fino ai denti di abilità lessicale vera o del tutto plagiata da siti internet di cui c’è ampia scelta, contro gli avversari o la vittima designata. Si ammantano di cultura esibita ma non sempre posseduta, il più delle volte è uno specchietto per allodole che vengono ingannate da citazioni, aforismi, a volte persino senza il dovuto virgolettato oppure, possedendola in quantità discreta, si lanciano in interminabili filippiche su qualsiasi argomento, dalla politica all’etica, dall’arte alla scienza, i campi sono infiniti.
Avvalendosi di uno strumento indispensabile e cioè l’enciclopedia on line, sanno ricavare delle tesi che a volte possono essere persino al di sopra di ogni logica ma che hanno il potere di attirare molti commenti e scatenare furiose e a volte rancorose e spesso insensate diatribe.
Ma è, questa , vera comunicazione? Che cosa resta di tanto scrivere, di discussioni feroci dove il capello viene sezionato oltre ogni limite e dove, il più delle volte, ci si accusa a vicenda di ogni cosa, dove per “ogni cosa” intendo anche ingiurie, calunnie, offese velate o esplicite, il più delle volte reciproche ma spesso unilaterali.
Viene fatta una selezione feroce: il più “forte” rimane a guerreggiare via tastiera mentre il debole finisce stranito da tanta violenza verbale e stramazza a terra decidendo che non è cosa e che fa meglio a desistere e mandare al diavolo la comunicazione e i comunicanti.
Queste sono considerazione generali. Ora andiamo nel particolare.
Sappiamo che Amadeus ha avuto non pochi problemi per una frase buttata li, del tipo ” E’ brava perché ha saputo stare un passo dietro al suo uomo”, parlando della fidanzata di un noto motociclista che partecipa a Sanremo come sua collaboratrice.
Ha scatenato le ire sui social soprattutto da parte delle donne, indignatissime per quella evidente caduta di stile, per quella frase sessista, maschilista e che ricorda altri tempi che le donne attuali non vogliono che ritornino.
Le donne non vogliono stare un passo dietro all’uomo, non ci devono stare, semmai accanto, avanti o indietro a seconda ma mai essere connotate come quelle “che stanno un passo dietro l’uomo”.Riporta indietro di millenni, una frase cosi.
Ebbene l’ha detto un uomo del nostro tempo, un uomo molto popolare, un uomo con un carriera dietro e davanti, di tutto rispetto. Simpatico, gioviale, non bello, no, agli uomini in genere non viene richiesto, ma piacevole, discorsivo, amichevole, no showman, non sa cantare né ballare, volendo è pure bruttino, ma piace.
Ma sbaglia, sbaglia anche lui nella foga di comunicare e la “comunicazione” è la bestia nera di tutti gli uomini “importanti” in tutti i campi, politica, giornalismo, spettacolo. Lo è anche per le donne ma le donne hanno maggiore duttilità nel comunicare e, comunque, soprattutto in Italia, non sostengono ruoli importanti tanto quanto gli uomini.
Le donne non si affidano a team di esperti in comunicazione ma, di solito, si arrangiano, si studiano i discorsi da sole e poi si buttano. Una per esempio è senza dubbio Maria Elena Boschi. L’ho osservata in questi giorni, a parte la bellezza è un’esperta comunicatrice, forse parla troppo in fretta, ma certo non si ferma davanti a nessuna domanda trabbocchetto.
Questo le donne lo devono imparare presto se vogliono poter dire la loro, Non farsi indimidire e esasperare da bordate di ogni sorta che possono arrivare da tutte le parti. Perchè, troppo spesso, le donne, anche le più agguerrite, rinunciano a parlare, gettano la spugna, mandano tutti al diavolo e ritornano nel guscio.
Niente di più sbagliato, ma le capisco. La società italiana è ancora e forse lo sarà sempre, profondamente e forse ireversibilmente (spero di no) maschilista.
Persino gli uomini che pure sono lontanissimi dal modello di maschilista italiano, talora, cadono in qualche gaffe rivelatrice, questo è il caso, mi pare, di Amadeus. Ma ne potrei fare molti altri.
La cultura in Italia è pregna di maschilismo al punto che talora anche gli uomini più liberi da questa stortura, ne cadono vittime inconsapevoli.
Capita che nelle discussioni sui social, sui blog, o anche dirette, la donna venga apostrofata con epiteti o vezzeggiativi che però non vogliono fare complimenti ma sminuire la persona per evidenziare la donna in quanto “diversa” o “inferiore” e si pone in atto una subdola discriminazione che a volte è difficile persino per le donne stesse riconoscere.
Un esempio potrebbe essere la candidata della Lega alle regionali dell’Emila Lucia Borgonzoni.
Su di lei ho letto di tutto e non sempre complimenti. lei si che se ne stava, se pure accanto, “un passo dietro ” a Salvini. Eppure è una donna combattiva, battagliera con molta verve, ma è donna! Volete mettere l’appeal di un maschio come Salvini per prendere consensi? Bene, per come sono andate le cose, lei, da sola, forse, avrebbe portato a casa lo stesso risultato se non meglio e lui ha fatto la figura del maschilista a tutto tondo, ma, nessuna meraviglia e sono sicura che troverei molti contestatori di questa mia opinione.
Per fare ancora un esempio (sarebbero infiniti). Se una donna controbatte argomentando le tesi di un uomo,anche quelli che si definiscono assolutamente liberi da ogni pregiudizio, per carità, che per loro maschi o femmine pari sono da sempre e mai hanno visto la ben che minima “dfferenza”, anzi, arrivano persino a trattare in senso lato, “male” una donna, proprio , a loro dire, per accentuare il fatto che “non fanno differenze”, bene, quando reagiscono ad una critica rivolta loro da una donna, arrivano ad esprimere il loro liberismo e profonda convinzione democratica (anche) in questo modo ” è evidente che lei non è in grado di recepire quanto legge”.
E guardate che non è una frase cosi chiara come può sembrare ad una prima lettura. Ma significa letteralmente e spregiudicatamente : ” guardi che lei non può parlare, è meglio che stia zitta quando parla con un uomo come me perché io ho capito da come si esprime che lei non è in grado di capire quello che legge, quindi, lei è un’inconsapevole idiota e mi dovrebbe anche ringraziare perché io le sto aprendo gli occhi”.
Non si tratta di tracciare linee di confine tra il genere maschile e femminile, ma si tratta di guardare la realtà dei fatti che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
Inutile dire che questo è solo uno dei tanti esempi, ma parlo per esperienza diretta.
E sta proprio qui il problema ed è inutile (a dire poco) che tanti uomini definiscano con disprezzo “femministe” le donne che cercano di difendere i diritti ancora negati alle donne, di vivere una vita piena e consapevole, di decidere da sé e per sé, autonomamente e senza interferenze che le possano scoraggiare e fare desistere dallo scegliere sempre quello che va bene per sè in quel momento della propria vita e di poterlo fare perché un sistema sociale non penalizzante per la donna come è sempre stato e come continua ad essere, venga finalmente, con gli sforzi condivisi, organizzato in modo tale da permetterle di sviluppare in pieno ed in piena libertà e autonomia e coscienza, tutte le proprie potenzialità.
E questo, alla fine, sarebbe un bene per tutti, uomini e donne. Continuare a fare finta di essere il massimo del liberalismo e di non avere il minimo pregiudizio, quando invece si hanno fette di prosciutto spesse un dito che impediscono di vedere oltre il proprio ego, il più delle volte pregno di narcisismo infantile e bloccato, su questo tema, a livelli pre adolescenziali. è uno spreco di risorse umane enorme e un danno continuo e immenso che si fa alla nostra società nella sua interezza.
E alla “comunicazione” intesa come interazione tra persone che hanno idee e concetti diversi e diversificati e vogliono condividerli per trovare punti in comune che servano a migliorare la qualità di vita di ognuno.
Un tema interessante, che trovo riduttivo trattare solo come preambolo alla diseguaglianza di genere.
Il tema della discussione è stato trattato da sociologi, psicologi, filosofi, tra cui Schopenhauer.
La vera discussione, e più in generale la comunicazione positiva, dovrebbe puntare a mettere a fattor comune le conoscenze, e a individuare gli elementi comuni, più che le inevitabili differenze di vedute.
I teorici della negoziazione indicano che è improduttivo cercare di portare l’interlocutore sulle proprie posizioni, mentre la strategia vincente è quella di individuare una terza posizione sulla quale sia possibile convergere entrambi.
Purtroppo, in gran parte della comunicazione di oggi il fine non è convergere, ma, anzi, dimostrare quanto le proprie posizioni siano lontane e inconciliabili rispetto a quelle dell’interlocutore.
E per far questo si ricorre spesso alla tecnica divisiva dell’insulto e della delegittimazione dell’interlocutore, etichettato come “uno di …” o semplicemente come una persona di mentalità chiusa, incapace di capire e perfino di ascoltare con attenzione.
I blog come questo e i forum, se ben utilizzati, permettono di fare qualcosa di meglio. Qui un messaggio non si perde nel marasma di decine di altri messaggi, ma rimane in evidenza, riceve delle risposte che, seppure spesso contrastanti, non arrivano quasi mai alla delegittimazione come interlocutore.
Quanto al tema della difficile convivenza tra uomini e donne, che per me ha una vita autonoma rispetto al tema delle mala comunicazione, credo che uno dei motivi principali delle incomprensioni tra uomini e donne sia la mancanza del riconoscimento che siamo diversi.
Siamo diversi fisicamente, per cui certi mestieri sono più adatti per un uomo che per una donna, e viceversa.
Siamo diversi come cervello, perché, secondo i paleontologi, i nostri rispettivi cervelli si sono specializzati e ottimizzati per svolgere ruoli diversi nel lunghissimo periodo in cui gli esseri umani vivevano di caccia e raccolta.
Presumibilmente gli uomini si erano specializzati nella caccia in gruppo mentre le donne si erano specializzate nella gestione del villaggio.
Per questo, per esempio, in genere, tra gli uomini si riscontra più cameratismo e più attitudine a cooperare, mentre tra le donne è molto spiccato il senso di possesso, di amministrazione e organizzazione.
In poche famiglie la scelta dell’arredamento della casa, gli orari dei pasti, l’educazione dei figli sono lasciati agli uomini. O queste scelte si fanno insieme, oppure le fa la donna.
Per superare le incomprensioni e i conflitti bisognerebbe avere sempre presente che l’interlocutore non è uguale a noi. Un uomo non deve interpretare la risposta di una donna come se venisse da un uomo, e viceversa.
Uomini e donne sono complessivamente altrettanto intelligenti e capaci, ma hanno abilità diverse ed eccellono in campi diversi. Lo dimostra il fatto che i neurologi hanno dimostrato che le stesse attività impegnano aree del cervello diverse. Desmond Morris fa l’esempio delle indicazioni stradali. Se chiedi un indicazione ad un uomo, probabilmente ti disegnerà una mappa mentale geometrica (prenda la prima a destra, poi dopo 300 metri giri a sinistra ecc…). Una donna, il più delle volte, indicherà dei riferimenti (prenda a destra dopo il bar e vada avanti fino al supermercato e poi giri a sinistra …). Non è sempre così, ma ci sono stati studi statistici che hanno evidenziato questo tipo di differenze.
Puntare ad un egualitarismo senza differenziazione è un’impresa ardua e con scarse prospettive di successo, perché le differenze negate riemergono.
Certo, tornando alla comunicazione, se lo scopo non è l’accordo ma la sottolineatura del disaccordo, considerare le donne e gli uomini come uguali e intercambiabili va benissimo.
RISPOSTA
“I blog come questo e i forum, se ben utilizzati, permettono di fare qualcosa di meglio. Qui un messaggio non si perde nel marasma di decine di altri messaggi,”
La ringrazio mi incoraggia a continuare perché io credo nella comunicazinoe positiva e nella diffusione delle idee se avviene in forma corretta e serve a contribuire a dipanare i problemi che dobbiamo affrontare ogni giorno. Ed è confortante una comunicazione nella quale ognuno possa liberamente esprimere la propria idea senza essere sopraffatto da chi vuole solo dare sfogo alla propria rabbia interiore e primeggiare senza dare alcun contributo ma ostacolare la discussione.
Ha ragione che i temi di questo articolo potrebbero essere distinti in due e trattati singolarmente. Non è detto che non si possa fare ugualmente.
La mia idea principale era quella di mettere in luce come la comunicazione sia particolarmente difficile per tutti ma lo sia in particolare per le donne.
Perché partecipare alle discussioni dove ci sia una preminenza maschile e c’è quasi ovunque, per una donna è difficile.
E le sue osservazioni generali sono condivisibili e mi trovano abbastanza d’accordo, ma c’è un problema di fondo che lei ha evitato di citare e questo è il maschilismo che non è solo un problema di differenze ma un vero e proprio atteggiamento discriminatorio che non ha ragione di esistere.
Ma, purtroppo, esiste e resiste.
Comunicare e di conseguenza comprendere, è difficile, per svariati motivi.
Il primo ovviamente è la conoscenza delle lingua, l’uso appropriato delle parole, la correttezza del periodo. Poi ci sono mille altri fattori che non dipendono dalla capacità di linguaggio.
Ci sono diversi livelli di comunicazione: quella più diffusa è la comunicazione verbale fatta di presenza. In questo caso oltre il linguaggio, la capacità di tradurre in parole il pensiero in tempi brevissimi, aiuta nell’espressione e nella comprensione lo stato d’animo degli interlocutori, l’espressione del viso, i movimenti delle mani, l’atteggiamento delle persona.
La comunicazione verbale a distanza, manca del supporto visivo, del contatto vis a vis, più difficile esprimersi, più facile fraintendere.
Poi c’è la comunicazione per iscritto, che può essere fatta di getto, oppure più spesso in maniera più ponderata a vantaggio dello stile, ma a scapito dell spontaneità.
I capolavori letterari sono sono scritti e riscritti, limati, corretti, revisionati -basti pensare i Promessi Sposi(rivisti perfino nel titolo), ma la bravura dell’artista sta nel trasmettere gli stati d’animo con spontaneità. Dante ne è esempio sena paragoni: “L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar delle marina”, magnifica visione dell’aurora, certamente pensata e ripensata, se non altro per far quadrare la quantità di sillabe del verso e le rime, ma apparentemente espressione genuina e immediata del sentimento del Poeta.
In tutti questi casi c’è la volontà di esprimersi, comunicare, farsi capire.
Diverso è il caso in cui intervengono fattori psicologici -come per esempio sfogare l’aggressività repressa, o sopperire a un difetto di stima per se stesso con eccessiva autostima. In tal caso lo scopo della comunicazione diventa secondario, non è importante farsi capire, o fare un ragionamento lineare che aiuti a capire, l’importante è sopraffare l’altro, mettersi in mostra, affermare il proprio io, altrimenti se si è sconfitti, addio stima di sé.
Le tecniche di sopraffazione sono innumerevoli, Shopenhauer scrisse un saggio sull’argomento, “L’arte di aver ragione”. In questi casi rientra l’arroganza di genere, quasi sempre dell’uomo verso la donna. Se questa non si mostra sottomessa, come una certa cultura ancora imperante vorrebbe, allora scattano i meccanismi di difesa e così si spiegano si spiegano espressioni del tipo: “Lei non capisce nulla”, “vada a fare la calza”, “non è materia per lei”.
RISPOSTA
Ed è proprio per questo che molte donne rinuciano ad entrare in posti dove vengono troppo spesso sopraffatte dalla aggressività maschile che non ci sta a discutere con una donna che potrebbe anche avere un tono deciso scambiato spesso per arroganza o supponenza perché nell’immaginario maschile ancora oggi e troppo di frequente, la donna deve rispondere ” a tono” non essere affermativa ma spesso dubitativa del suo stesso dire. Resistono ancora certi atteggiamenti chiamati a torto “femminili” ma in realtà frutto solo di condizionamenti ancestrali e inconsapevoli o,anche artefattiperchè la donna deve ancora chiedere il permesso prima di parlare.A meno che non sia riconosciuta donna di “potere”, ottenuto spesso non per meriti personali ma perché c’è un uomo che le ha fatto da garante. Sono veramente poche le donne che sono “potenti” per meriti riconducibili solo a se stesse. Ancora troppo poche.
Sono d’accordo sui problemi evidenziati da Alessandro. Per la mancanza di integrazione della comunicazione ottenibile con il tono della voce, l’espressione, la postura, è molto più facile litigare e incazzarsi sui social che in un salotto. (succede un po’ anche qui)
Vedo che siamo d’accordo anche sul fatto che per molti l’obiettivo della comunicazione non è la convergenza, ma, addirittura, l’espressione fine a se stessa del disaccordo.
Quanto alle donne in posizioni di potere, la mia esperienza non è così negativa.
Nella mia azienda le donne nominate dirigente erano almeno pari agli uomini, se rapportiamo il numero alla base di partenza (gli assunti erano in prevalenza uomini.
Oggi mi pare che molte donne siano in posizioni di altissimo livello.
L’A.D. di ArcelorMittal Italia è una donna.
Emma Marcegaglia è stata presidente di Confindustria e tante altre donne ricoprono posizioni di presidente o Amministratore Delegano di aziende importanti. E non si tratta solo di aziende di famiglia delle quali sono anche proprietarie o maggiori azioniste.
Esiste proprio un mercato di donne manager professioniste che passano da un’azienda all’altra e sono stimate e apprezzate al pari degli uomini.
Certo, esistono posizioni manageriali critiche nelle quali non sono ammesse lunghe assenze. Per queste posizioni la scelta ricade preferibilmente sugli uomini, ma non sono moltissimi casi.
RISPOSTA
Che ci siano più donne manager di un tempo non c’è dubbio, ma siamo lontanissimi dai livelli di altri paesi europei.
Le lunghe assenze servono a perpetuare la specie, va bene che siamo già tantissimi, ciò non toglie che la funzione riproduttiva è ancora l’unico mezzo per non arrivare, anche se lentamente, all’estinzione. Questo è un “problema” che solo le azinede italiane trovano difficile affrontare, mentre gin altri paesi tutto fila liscio e le madri, anche le manager hanno sostegno e contributi.
A me è capitato di dover rinunciare ad un collaboratore importante per 6 mesi ed è stata una faticaccia. Ho dovuto fare il mio lavoro e buona parte del suo. E’ stato possibile perché la mia posizione non era di livello molto alto. Se il mio capo avesse dovuto fare a meno di me per lo stesso periodo non ci sarebbe riuscito e mi avrebbe dovuto rimpiazzare.
E’ indiscutibile che la maternità è importantissima, ma non è detto che si debba salvare sempre capra e cavoli.
All’estero c’è anche molta più mobilità che da noi.
Nei Paesi anglosassoni o scandinavi una donna può anche lasciare il lavoro per un periodo di qualche anno e dedicarsi alla famiglia e poi rientrare a pieno titolo nel mondo del lavoro, nella stessa azienda o in un’altra.
In Italia, come lasci un posto a tempo indeterminato rischi di restare fuori dal mercato del lavoro.
RISPOSTA
Si, giusto, in Italia non ti puoi permettere di assentarti, soprattutto se sei donna e occupi uno spazio dirigenziale anche non di altissimo livello, ti devi tenere la scrivania appesa al collo e non lasciarla neppure per andare a dormire.
Figuriamoci per partorire o chiedere di fare uno o due anni di aspettativa…non trovi neppure più l’azienda.
Comunque ora le donne hanno questo benefit in più: possono anche lavorare fino al nono mese…bella fregatura, quelle che non vorranno saranno discriminate rispetto alle altre. Se per un uomo è difficile assentarsi anche solo per breve tmpo per una donna e veramente come chiedere la luna.
Può essere interessante per valutare lo status della donna nel campo del lavoro e delle prospettive di carriera , la seguente relazione:
https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2019/11/27/disparita-di-genere-sul-lavoro-la-legge-che-tutela-la-carriera-delle-donne-e-a-rischio/
Da cui cito:
“In parole povere: molte consigliere indipendenti, ma poche executive (9 per cento), pochissime (meno del 5 per cento) amministratrici delegate. E così le manager: 29 per cento (dato del 2017) e qui nel raffronto europeo non brilliamo visto che la media si attesta al 36 per cento”.
RISPOSTA
Stasera mentre riponevo le buste della spesa in auto, mi si è avvicinata una ragazza, aveva un cappuccio in testa era vestita sportiva ma decente, il parcheggio del supermarket era deserto. Mi dice che ha bambini a casa e non sa come sfamarli e chiede aiuto, io sono perplessa, avrà avuto 35 40 nni. La guardo e mi fa tenerezza e pena , poi penso e se fosse drogata? E dico che mi dispiace ma non ho soldi con me. Lei se ne va, triste. Io non ce la faccio a vederla cosi abbattuta e la richiamo, le chiedo se è italiana e lei dice che si, certo che è italiana, del posto.
Mi dice di non avere lavoro e nessuno che l’aiuti. Ovviamente le dò qualcosa e mi sembra davvero troppo poco, vorrei poter fare di più. Le ho fatto gli auguri di buona fortuna ma sentivo che non se ne faceva niente e mi sono sentita inutile.
Quanto giovani e quante donne italiane si sono ridotte a mendicare, in un parcheggio, di sera, per la disperazione?
Forse la politica dovrebbe chiederselo e pensarci di più e meglio.
Nel dubbio, sempre meglio dare un aiuto, e fosse vero, è proprio il caso in cui il reddito di inclusione o quello di cittadinanza possono soccorrere.
RISPOSTA
per avere il RdC devi avere dei requisiti precisi e non tutti li hanno.
E infatti risulta che siano proprio i nullatenenti i più disperati gli emarginati, quelli che vanno ad ingrossare le fila della Caritas o neppure quella perché si vergognano.Oppure i contributi li diamo ai terroristi e ai ricchi sfondati.
Un sistema di welfare bene oliato e ben programmata non lascia soli individui, maschi o femmine, soprattutto con prole, alla deriva a dover mendicare al buio coperti dal cappuccio per la disperazione. E il RdI non basta a sfamare una famiglia ci vuole il lavoro sempre promesso da tutti e mai preso veramente come il problema principale del paese.
Senza lavoro non sei nessuno, non puoi sfamare i tuoi figli, non puoi pagare le rate del mutuo non puoi pagare le bollette e sei alla disperazione.
Tanti sono cosi in Italia dicono che siano 5 milioni e sono un’enormità
E sono sprattutto giovani e bambini, come quella ragazza.
Ha fatto ben due figli, forse con uno o due disperati come lei e i figli non si fanno mai a caso ma ormai ci sono e bisogna provvedere per loro oltre che per se stessi.
Lei mi ha detto di avere due bambini e le credo. Ci sono persone in queste condizioni, per molti motivi e uno stato che si voglia proclamare civile deve fronteggiare la povertà e la mancanza di lavoro come la vera prima grande emergenza del paese!
Ci sono anche tanti uomini in quelle condizioni, forse di più che le donne. Chiudono un’infinità di aziende e un cinquanta-sessantenne non trova più un lavoro. Molti uomini sono anche separati e devono dare l’assegno mensile alla moglie.
Bisogna ringraziare i sindacati e i governi degli anni ’70 – 90, che hanno fatto perdere competitività alle aziende italiane. E la gallina dalle uova d’oro è finita in pentola.
Alcuni imprenditori hanno delocalizzato, altri non ce l’hanno fatta e hanno chiuso.
E quando penso a queste persone e vedo i richiedenti asilo (in maggioranza senza titolo per richiederlo) ospitati nell’hotel Porto Pozzo (3 stelle in località turistica sarda) per mesi, penso che non è giusto.
RISPOSTA
Si bisogna ringraziare molti di questo disastro, soprattutto quelli che hanno pensato bene di rovinare il mondo del lavoro precarizzandolo per sfruttare meglio i lavoratori e questo ha determinato il collasso di un sistema che funzionava proprio perché ben regolato-
Non sono gli immigrati ad aver contribuito a determinare questa situazione ma l’avidità del sistema imprenditoriale nel suo insieme e la scarsa lungimiranza della politica.
Mariagrazia,
sono d’accordo, oltre le iniziative caritatevoli, è lo stato che deve provvedere e non permettere che nessuno sia costretto a questuare, cioè a fare violenza alla propria dignità.
Perciò, se il reddito di cittadinanza e il reddito di inclusione non sono sufficienti, che si rendano efficaci, magari ridistribuendo le risorse a favore del RdI.
RISPOSTA
si, potrebbe anche essere ripreso il RdI che è meno complicato e più facilmente accessibile, ciò non toglie che ci sia bisogno soprattutto di politiche del lavoro e non mi sembra che questo governo, per ora, se ne stia occupando.
Non sono d’accordo che sia stata la precarizzazione a ridurre la competitività. E’ stata la conseguenza e non la causa.
Io stavo in una grande azienda e ho vissuto anno dopo anno la diminuzione della motivazione dei lavoratori, che i sindacati convincevano di essere sfruttati.
Ho visto la crescita continua dell’atteggiamento del “non mi compete”.
Ho visto la crescita dell’assenteismo da mal di testa mattutino.
Ho vissuto l’opposizione dei sindacati verso la meritocrazia.
Una volta, non sapendo come premiare un mio collaboratore in gambissima, gli ho prestato personalmente dei soldi che gli servivano per una necessità immediata (che mi ha restituito in tempi brevi).
Il premio annuo l’aveva avuto – con grande insistenza da parte mia – l’anno precedente, e bisognava darlo un po’ a tutti ….
Ho vissuto l’applicazione ostile dello “Statuto dei lavoratori”, non solo il famoso art. 18, che ormai era dato per scontato, ma anche l’art. 28 (comportamento antisindacale), secondo il quale, per certa magistratura, l’azienda era perseguibile penalmente se cercava di minimizzare gli effetti di uno sciopero.
Non potendo licenziare neppure chi non faceva niente dalla mattina alla sera (a meno che non rubasse o si facesse pizzicare mentre faceva un altro lavoro durante la malattia), è nata la precarietà.
Ovviamente, se un azienda non può licenziare, evita di assumere.
Ma la precarizzazione non ha risolto il problema. La struttura produttiva italiana era già compromessa.
Troppi impiegati negli uffici in rapporto a chi produceva (migrazione sostenuta dai sindacati), troppi vincoli per gli imprenditori, troppi appalti e subappalti da parte della P.A. e delle aziende grandi, per scaricare su piccole imprese le rotture di scatole con i sindacati e gli altri rischi.
Si era persa la motivazione, la professionalità e l’attaccamento al lavoro.
Gli immigrati sono pericolosi anche perché non hanno vissuto quei decenni di decadenza del rapporto lavoratore – azienda. Loro sono abituati a lavorare 12 ore al giorno e a non dire mai “non mi compete”.
Anche per questo molti imprenditori li preferiscono.
RISPOSTA
E io non sono d’accordo con quasi nulla di quanto scrive.
Per cominciare la precarizzazione è il male non una conseguenza del male e deriva da una cosa chiamata neoliberismo ( o le diverse interpretazioni) sfrenato o anche sobrio.
Poi…legge Treu, Biagi, Fornero…fino a Renzi ci hanno messo il carico.
Ovviamente ci mettiamo i governi Berlusconi che hanno causato il post Berlusconi (Monti) e anche un Prodi che ha mal interpretato il concetto di flessibilità proposto o imposto negli anni ’90’ dall’Europa.
Magari nelle intenzioni c’era del buono ma, come si è visto, la visione liberista di quella nuova concezione del lavoro, ha portato solo disastri.
E poi, scusi, ma quando l’economia tira il merito è degli imprenditori e quando va male la colpa è dei lavoratori?E dei sindacati?
Qualche cosa non torna.
E poi la sua teoria che i sindacati convincessero i lavoratori di essere sfruttati tanto da suggerirgli quella cosa del “non mi compete” con la conseguente perdita di professionalità…è cosi fantasiosa che merita un premio.
E gli immigrati sono stati immessi in quel meccanismo perverso che li ha utilizzati per abbassare il costo del lavoro e rendere la “flessibilità” quasi un dogma.
Un vero disastro. E ora ne stiamo pagando tutti le conseguenze, i giovani in primis. E non si vede ancora luce in fondo al tunnel.
Io non so quale sia stata la sua vita lavorativa, ma io ho avuto a che fare con personale dipendente e con i sindacati quasi ininterrottamente e in tre regioni italiane diverse dal 1974 al 2003. Ho partecipato alle discussioni con i sindacati sull’applicazione dei rinnovi del CdL. Sono stato per 13 anni, in due regioni diverse, membro di parte aziendale di una commissione paritetica con i sindacati sul problema degli infortuni e dell’igiene del lavoro.
Per questo ho avuto il modo di veder cambiare i rapporti azienda – lavoratori – sindacati.
Che la precarizzazione è stata la conseguenza e non la causa della crisi lo dimostra il fatto che è venuta temporalmente dopo.
La crisi che ho descritto io si è consumata entro gli anni ’90, mentre la precarizzazione è iniziata sostanzialmente negli anni 2000.
Non ho mai detto che il merito del miracolo economico del primo dopoguerra sia stato solo merito degli imprenditori.
Il quegli anni i lavoratori erano attaccati alla loro azienda e cercavano di progredire economicamente e professionalmente. Il merito era anche loro.
Forse lei è troppo giovane, ma una volta si leggevano vignette umoristiche in cui il dipendente chiedeva al suo capo un aumento di stipendio.
Negli anni ’80 questo tipo di barzellette era già anacronistico, perché la meritocrazia era stata combattuta ed eliminata dai sindacati, e il capo non aveva nessuna discrezionalità nel rapporto di lavoro con il dipendente.
Era un tipo di barzelletta che la gente non avrebbe capito, come quelle sul rapporto tra suocera e nuora che ormai raramente convivevano nella stessa casa.
L’azione dei sindacati era strategicamente chiara e lucida. Più i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro erano cattivi e più il loro ruolo era importante e decisivo. Sono diventati così potenti che, alla fine della prima repubblica, il governo, prima di portare una legge in Parlamento “sentiva le parti sociali”, cioè i sindacati, e se loro mettevano il veto la legge veniva modificata o non presentata.
I sindacati credevano che ci fossero grandi margini di trattativa e che gli imprenditori avessero ancora molto da concedere senza pregiudicare la redditività delle loro aziende, e negli anni ’60 – ’70 era così.
Poi è arrivata la UE, è arrivata la globalizzazione, e le aziende italiane, che erano già indebolite dalle interminabili lotte in corso in quel periodo, non hanno retto il confronto con la concorrenza.
Da osservare che la motivazione non l’avevano persa solo i lavoratori, ma anche gli imprenditori.
Se il clima di lotta di classe aveva incattivito i lavoratori portando al motto “non mi compete”, cioè faccio il minimo indispensabile, aveva incattivito anche i datori di lavoro, trattati continuamente come sfruttatori e aguzzini, e oggetto dei dispetti più vari. La loro riflessione era “chi me lo fa fare?”, e, se capitava l’occasione, vendevano o chiudevano l’azienda e abbandonavano i lavoratori al loro destino.
Per fare le cose bene ci vuole serenità e fiducia reciproca. altrimenti ciascuno punta a sfruttare la situazione e non investe nel futuro. Così l’Italia ha perso la grande industria e sono rimasti solo i servizi e le piccole e imprese.
Risposta
Lenzini, così come io non le ho chiesto il suo C.V. per valutare le sue opinioni, credo che lei dovrebbe fare altrettanto con le mie. Qui non si giudicano le opinioni in base al CV di chi le esprime.Ma ognuno è libero di esprimersi in base allle proprie convinzioni che siano o meno certificate da esperienza in materia. Questo solo come doverosa premessa.
Può benissimo raccontare le sue esperienze professionali e di vita, ma non credo che lei pretenda che queste diventino un “testo” di riferimento.
Per quanto riguarda il tema, io mi riferisco a questo:l’introduzione delle agenzie interinali, dei lavori a chiamata a progetto co.co…dè di qualsiasi forma e natura è stato (assieme a cosiddette riforme del lavoro) quello che ha determinato il caos e nel tempo, non certo immediatamente, ha portato alla situazione attuale.
Nel nome della santa “flessibilità”,Si sono sostituti (per non dire cacciati a calci nel sedere) lavoratori con competenze acquisite ma consapevoli di diritti e doveri, con “nuovi schiavi” resi balbettanti dalla loro condizione precaria che non gli permette di avanzare nessun tipo di pretesa ma di adattarsi a qualsiasi richiesta pena la perdita di quel minimo di stipendio che proviene da lavori che, il più della volte non hanno una durata tale da consentire né di fare esperienze specifiche né di poter contare su uno stipendio che possa provvedere alla sussistenza con tutte le conseguenze del caso.
E questo ha permesso ogni sorta di anomalia , tra i lavori atipici e la progressiva diminuzione dei diritti fino alla loro scomparsa (quasi), le tutele calanti e quanto altro la fervida immaginazione dei nostri governanti è riuscita a imbastire per arrivare a questi risultati: un disastro annunciato e compiuto. Le cui conseguenze sul tessuto produttivo e sociale sono evidenti a tutti quelli che le vogliono vedere.