Ritornare necessario

E’ entrata in camera, c’era la luce spenta ma la grande porta finestra spalancata e il cielo entrava nella stanza a rischiararla.

“Mamma, dormi?”Lo sapeva che non dormivo, osservavo il cielo, ma avrei anche potuto essere al quarto sonno, ormai erano le undici passate e …ma lei no, non ci pensava, voleva darmi il bacio della buonanotte.

Quello che non mi dava da tanto tempo. Da piccola si, lo faceva sempre, voleva essere lei a darmelo. E io poi, contraccambiavo, felice.

Entra, mi si avvicina e mi accarezza una spalla e dice che la trova morbida, fa molto caldo  ed ho molta epidermide esposta ed è la pelle quello che ci fa partecipi del mondo, delle cose, dell’aria, del sole, dell’acqua e delle carezze e dei sentimenti.

Sua nonna non me lo dava mai il bacio della buonanotte, ma neppure quello del buongiorno. Ma in fondo era un po’ come lei,prepotentemente timida e po’ ritrosa. Ma solo da poco tempo, un sospiro di tempo in confronto a tutto l’altro tempo in cui non lo faceva, mai, neppure per sbaglio è tornata a questo piccolo rito, grande come il mondo. E che soffrire e gioire fanno differenza, non lo si capisce subito quando si soffre senza neppure saperlo. Carattere, caratteri, indole, personalità, chissà…

Poi mi solleva la frangia e dice: “che capelli morbidi” e poi mi lascia un soffio delle sue labbra sulla fronte. E ciao.

Si, ciao.

 

Erano in tanti in quella casa sull’argine del fiume, in quella casa grande, sempre piena di gente, a volte allegra a volte arrabbiata, a volte entrambe le cose allo stesso tempo.

Erano fratelli e sorelle e amici e fidanzate e fidanzati e poi c’erano i nonni.

Erano tutti  giovani e belli e pieni di voglia di vivere, ai miei occhi di bambina. In due di loro non hanno superato chi 20 chi 25 anni.   Morti entrambi in incidente stradale, uno con la moto l’altro con l’auto appena comprata a qualche anno di distanza l’uno dall’altro,  una brutta sberla della vita. Due di loro non lo sapevano ma ne avevano poca  davanti, ma la vivevano come se fosse stata infinita.

Io sono comparsa un giorno d’estate come per magia tra di loro. Una magia, un mistero, quasi un incantesimo mi ha portato a stare in mezzo a loro,a conoscerli ad amarli,a poco a poco e all’improvviso  e loro me.  Quanti giochi insieme e quanti pranzi e cene e quante corse nei prati e nei campi  a raccogliere uva e mele e pesche e susine, o con loro o anche senza, quando ne avevo voglia e sfuggivo alla loro attenzione distratta.

Ma ogni volta mi ritrovavano e mi riportavano in quella casa grande e piena delle loro voci e delle loro risate. Che per me era una sola cosa con il resto intorno.

Il pioppeto e il prato, l’orto, il grande giardino, la vasca coi pesci rossi e il pozzo con la carrucola che cigolava ogni volta che il nonno tirava su il secchio con l’acqua fresca per i fiori del giardino. E gli anatroccoli che sguazzavano nel piccolo rivo che scorreva tutto lungo un lato della casa.

Le case vicine, dove stavano solo amici o quelli che allora mi sembravano tali, persone con sorrisi sempre pronti e buffetti per le mie guance piene o le gambe che apparivano già lunghe sotto i calzoncini rossi corti.

E alberi che mi aspettavano la mattina d’estate quando spalancavo la finestra della stanza al piano superiore per incontrarli e salutarli e dirgli di aspettarmi che sarei arrivata in un baleno.

E loro rispondevano con le foglie che frullavano come mani  e sembravano danzare sotto la brezza mattutina leggera e gli uccelli che impazzivano e gli giravano intorno in cerca dei nidi lasciati all’alba.

E poi, in un turbine, di colpo due sentimenti sconosciuti: la malinconia e persino la rabbia.

Beh, ‘notte, mamma.

Notte.

Si, notte. Come quella lunga, quasi interminabile, seguita a quel giorno luminoso ininterrotto di quei miei primi anni affacciata appena al bordo della vita. Ma non infinita. Come dice Renato quando ragiona sui “migliori anni”.

Ora non so, se a cosi grande distanza dal quel tempo e da quella notte, sia più forte il ricordo della malinconia della partenza o della gioia del mio primo incontro con la vita e con quella casa, la casa delle mie estati, dolci, serene, intervallate da lunghi inverni in città.

O se sia solo un ritornare necessario a quei momenti in cui prendevo le misure del mondo intorno a me e mi sembrava cosi bello e cosi invitante e cosi luminoso e colorato e tanto, tanto mio.

Non saprei se l’ho lasciato li per sempre  o se me lo sono portato sempre dentro come un bagaglio del quale non posso disfarmi mai, quel mondo colorato e pieno di affettività vissuta con gioia come un dono.

Un’infanzia incartata dentro la stagnola, riposta in un cassetto che ogni tanto apro e nel quale vorrei mettere un po’ d’ordine ma non ci riesco. Troppo ancora di inesplorato dentro a quell’involucro che trattiene segreti.

 

Notte mamma.

Notte.

14 commenti su “Ritornare necessario”

  1. Una prosa, MGG, che è poesia, tenue, fragile, lieve, di una malinconia struggente ed avvolgente. Niente fronzoli inutili, trine e merletti strabilianti. Mi hai stupito. Ho rivisto gli argini del Brenta, la sua corrente possente, ma placida, gli alberi che lo costeggiano, la pianura intorno, le case della laguna, e tutto quanto ancora ricordo con nostalgia, di quella settimana trascorsa, in agriturismo, anni fa, tra Mira e Dolo.

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  2. Mariagrazia,
    molto toccante questo ricordo d’infanzia, di luoghi e persone care, di voci, di richiami. I nonni, il profumo dilei giardini, gli alberi vigorosi che ombreggiano, il fiume che scorre placido, gli anatroccoli che esternano la gioia del vivere, che è anche la tua gioia, pur nella malinconia del ricordo; e su di tutti, il ricordo della mamma, anzi la sua presenza, impossibile da cancellare, campassimo pure mille anni.
    Il tutto espresso con rara delicatezza di sentimenti e profo
    nda commozione, che sei capace di trasmettere, come ora a me, qualità già intraviste nelle tue precedenti belle poesie.
    Brava.

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  3. MGG, quanno ce vo’ ce vo’. Se, per me, ti meriti lodi , non mi tiro certo indietro, così come ti critico, se necessario. Ma quando scrivi questi tuoi brani, quasi onirici, sei veramente inimitabile.

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  4. Mariagrazia, colgo volentieri il tuo invito a parlare di qualche episodio dell’infanzia.
    L’episodio di cui voglio parlare, è nientemeno che la seconda guerra mondiale.
    Benché piccolo, sono rimasti impressi nella mia memoria tantissimi episodi.
    Intanto un’estate caldissima quella del ’43, un sole che arroventava la sciara su cui era costruito il paesello, dove la mia famiglia s’era rifugiata, nel tentativo di limitare i danni della guerra. Infatti Catania da mesi era stata sottoposta a violenti bombardamenti e la gente sfollava nei paesi etnei.
    Invece ci trovammo in pieno accampamento militare, sia tra i soldati tedeschi e italiani, prima, sia tra quelli Inglesi, dopo, con i carri armati schierati per strada e le artiglierie puntate, sotto il cannoneggiamento della flotta americano visibile all’orizzonte del mare Ionio, bellissimo, di un azzurro intenso. Dovemmo riparare in vari rifugi di fortuna, nelle grotte della scogliera, nel Castello Normanno, nel tunnel della ferrovia, puoi immaginare in quali condizioni di igiene.
    Ricordo poi l’oscuramento, buio fitto nella strade e nelle case e siccome per il caldo si stava fuori casa fino a tardi, ci illuminava la luna, o in mancanza di essa, la via lattea. Mai viste tante stelle tutte insieme, come allora, luminose e men luminose, raggruppate in svariate forme, oppure sparse. Ricordo, prima della ritirata, un gruppo di tedeschi che cantavano familiarizzando coi paesani.
    Ricordo una notte, guardando verso Catania, il cielo tingersi di rosso a causa degli spezzoni incendiari che davano luce alle truppe scelte di paracadutisti tedeschi e inglesi, e agli alianti che planavano, nella piana di Catania, carichi di armi e munizioni: si combatteva la battaglia per la conquista del ponte sul fiume Simeto, il ponte di Primosole. Quanti giovani vi morirono di entrambi gli schieramenti, la cui croci commemorative si possono ancora vedere nei cimiteri di guerra della piana.
    E quando fu dato l’ordine della ritirata, nel cuore della notte, il rombo dei carri armati e l’autocolonna che si fermò davanti casa mia: ci restituirono le coperte prestate e un soldato tedesco volle salutare mia sorellina che gli ricordava la figlia lontana.
    Dopo la ritirata entrarono le truppe inglesi dal caratteristico elmetto, distribuendo cioccolata e gallette. Con loro anche truppe indiane e australiane.
    Un giorno ci fu un gran parlare in famiglia e tra la gente del paese, era stato arrestato Mussolini, un personaggio di cui avevo sentito parlare con orgoglio o con disprezzo .
    In seguito tornò la luce nelle case, il pane non fu più distribuito con la tessera, le strade dissestate dai cingoli dei carri armati furono riparate .
    Poi anche la guerra finì, ma nel mio ricordo vive ancora assieme a quell’estate caldissima e al cielo stellato.

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  5. A proposito di truppe inglesi in Sicilia ma non solo, il generale Montgomery mi è sempre risultato antipatico. Non valeva Patton e nemmeno Rommel, e, da bravo inglese imperiale, gli andava stretto dover obbedire ad Eisenhower e cercava di farli lo sgambetto, se appena gli si presentava l’occasione. Capirai, un generale di Sua Maestà dinnanzi ad uno yankee. Gli piaceva vincere facile, come in Nordafrica, e quando prese l’iniziativa di passare per l’Olanda, le prese sonore al ponte di Arnhem, anche pe ché disprezzò i consigli dei partigiani olandesi e mal gliene incolse..

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  6. Montgomery, a capo della VIII armata britannica, perse la “gara” ingaggiata con la VII armata Usa agli ordini di Patton, per chi arrivasse prima a Messina.
    Incontrò un resistenza inaspettata all’avanzata delle sue truppe, cosa che non toccò a Patton nell’avanzata verso Palermo.
    Montgomery, Non riuscendo a conquistare subito il Ponte di Primosole per poi proseguire su Catania, come erroneamente previsto, ripiegò per l’aggiramento dell’Etna, con grave ritardo e perdite non calcolate, come nelle battaglie di Catenanuova, Sferro e Centuripe.
    Tuttavia si comportò meglio di Patton che, è vero che arrivò per primo a Messina, ma per la sua durezza e mancanza di umanità verso le truppe, fu costretto, da Alexander, a chiedere scusa pubblicamente alla I divisione di fanteria.
    Episodio che danneggiò Patton nelle fasi successive.

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  7. Però, Alessandro, è vero che Patton era abbastanza rozzo e violento, fu lui a schiaffeggiare un suo soldato, in un ospedale da campo, ritenendolo un vigliacco. Era anche uno sbruffone da film western, con revolver al fianco, modello Sfida all’OK Corral. Ma aveva non una, ma mille ragioni, e Churchill era con lui, nell’insistere per arrivare per primi a Berlino ed oltre, sorpassando i mongoli e i cosacchi di Stalin. Gli americani vincono le guerre, ma non sono capaci di costruire le paci. Allora, consegnarono ad una dittatura infame mezza Europa, per quasi 50 anni. Churchill non avrebbe mai fatto un errore del genere, tant’è che sbaragliò in Grecia i partigiani comunisti, per sempre. E in Sicilia, diedero nuova linfa e mano libera alla mafia locale e a Cosa Nostra, vedi gli interventi locali di Lucky Luciano ed i suoi accordi con i boss siculi.

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  8. Prima elementare lontano dal paese natio in una città Cagliari , grande,sconosciuta . Abitavo in un grande antico palazzo sopra l’ appartamento di due Signorine di un’ età indefinibile ma di un animo intriso di un grigiore come le cose ammuffite .Mia madre mi mandava da loro a recuperare qualche oggetto che le era inopportunamente caduto nel loro balcone ,io obbediente e con molto imbarazzo suonavo alla porta pregando non fossero troppo arrabbiate compare sull ‘uscio appena socchiuso una vecchietta esile e curva con l’ aria truce mi osserva e dice “ sei una peste bubbonica!” Prendo allora dalla sua mano il canovaccio incriminato e scappo al piano di sopra ,tentando di nascondere un’ emozione unica come avessi incontrato la strega cattiva delle favole ,chiamando mamma mamma alla ricerca delle sue braccia come rifugio sicuro.

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  9. Leggendo il simpatico racconto d’infanzia di Carmela, m’è venuto in mente un episodio della mia gioventù, a proposito di bella accoglienza da parte di un vicino.
    Da ragazzino, nel paese di villeggiatura, in mancanza di un campo di calcio, spesso
    si giocava per strada, in ciò assecondati dalla quasi mancanza di traffico stradale. Strade in terra battuta, polverose, spesso piertrose, ai cui margini si affacciavano, distanziate solo da uno stretto marciapiede, porte, finestre, terrazzi e giardini delle case private, quasi tutte a pian terreno.
    Se il pallone finiva fuori campo (ossia in “territorio nemico”) il responsabile aveva l’incompensa, piuttosto fastidiosa, di recuperarlo.
    Un giorno, questa necessaria opera di recupero toccò a me: scavalcai di soppiatto il muretto, entrai nel giardino del vicino di casa, e mentre protendevo le mani al cespuglio dove era finito il pallone, per afferrarlo -zac!- un coltello appuntito mi sfiorò le mani, recise lo stelo di un fiore e ando’ a colpire il pallone, per fortuna non perforandolo, ma rimbalzando lontano. E mentre, afferrato il pallone, fuggivo, udii il vicino urlarmi dietro che se mi avesse preso mi avtrebbe ucciso.
    Solo allora mi ricordai che quel vicino, in paese, lo chiamavano
    “il pazzo”. Per fortuna, quella volta, riuscii a sgattaiolare.

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