“Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge…
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro…
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso…”
Ecco il luogo dove Dante ha posto gli adulatori. Insomma i leccapiedi, quelli sempre pronti a genuflettersi davanti a chi gli sembra possa essergli utile in qualche modo. O anche solamente per farsi belli, per sembrare più intelligenti nel comprendere e nel valutare persone, fatti, o qualsiasi cosa che gli conferisca una certa luce e li ammanti di intelligenza critica superiore agli altri.
Superlativi assoluti usati scriteriatamente e sempre con un unico scopo: attirare l’attenzione su di sé. In genere si tratta di persone piccole, meschine, con un’autostima che però trasborda , che non sanno pensare che a se stessi e alle loro personali meschinerie. Con una capacità rara di utilizzare gli altri per i propri infimi scopi.
E Dante li mette giustamente in mezzo allo sterco. Perché non esiste peggiore punizione per chi pensa di accattivarsi le simpatie dei potenti o comunque di chi possa, a sua volta ricambiare adulando allo stesso modo, o addirittura in maniera ancora più marcata, colui il quale ne ha cantato le gesta in modo cosi mirabolante e accattivante.
Frasi come: “Sei un grande”, “meriti una standing ovation”, “davanti a te non sono nessuno”, “sei in grandissimo”…e via di questo adulare, si trovano spesso in contesti dove si più persone si riuniscono e dove si formano invidie, gelosie, ripicche. Dove girano pettegolezzi, dove tutti si guardano di traverso cercando la pagliuzza nell’occhio dell’altro, dove ognuno cerca di primeggiare, di distinguersi e dove non conta l’oggetto della discussione o del contendere ma conta quanti consensi ottiene questa o quella affermazione, più o meno centrata, più o meno intelligente, più o meno arguta.
Luoghi spesso frequentati da questi personaggi: i leccapiedi, appunto, gli adulatori per dirla in italiano corretto. Si cercano una claque, si intrufolano tra quelli che sembrano essere le vittime privilegiate e iniziano la loro arrampicata verso quello che è il loro obiettivo primario: farsi notare. Farsi notare e farsi “amare”, crearsi un “giro” che sia sempre disposto a difenderli perché sanno che da lui avranno in cambio solo paroline dolci, mielose che solleticano l’infinito bisogno di alcuni (ancora più piccoli e meschini di loro)di sentirsi considerati, vezzeggiati, portati in palmo di mano.
Mentre per i leccapiedi adulare è un bisogno fondamentale perchè non possono vivere senza avere i riflettori puntati H24 verso di loro, gli altri, gli adulati, spesso se ne servono per prevalere su chiunque potrebbe costituire una minaccia al proprio amor proprio costantemente vigile a che nessuno lo metta in cattiva luce o anche solo in penombra.
In fondo vivono male perché alla base c’è la consapevolezza di valere poco e di non avere la voglia, la volontà e forse neppure la capacità di migliorare e per questo cercano continue gratificazioni e per ottenerle non esitano a sperticarsi in complimenti.
Ma se l’oggetto delle loro attenzioni non sembra gradirle e anzi ne è addirittura infastidito allora fanno uscire il meglio ( o il peggio di sé) e diventano vendicativi. Si scagliano in tutti i modi contro questo soggetto ritenuto ingrato e insensibile al loro fascino e lo attaccano con tutti i mezzi possibili facendosi aiutare dal “giro” che si sono precedentemente costruiti anche proprio a questo fine.
Sono esseri untuosi e appiccicosi, in genere dotati di intelligenza non troppo elevata ma pratica, in grado di nuocere perché, servendosi della loro capacità di blandire, possono arrivare persino a diffamare il soggetto che non li contraccambia o farne oggetto di stalking o di mobbing se il contesto è l’ambito lavorativo.
Per questo Dante li mette all’Inferno,perché possono diventare molto pericolosi in ambito sociale e costituire una minaccia ad un suo sviluppo e progresso.
In fondo sono dei repressi che avrebbero bisogno di cure ma sarebbe bene evitarli per non trovarsi ad avere a che fare con le mille astuzie e i mille macchiavelli che sono capaci di architteare pur di nuocere a chi hanno identificato come potenziale “rivale”.
Dagli adulatori mi guardo sempre e li tengo a debita distanza anche se non sempre sono in grado di riconscerli immediatamente ma, spesso, li individuo in tempo utile per non lascarmi soggiogare.
Peggio di un adulatore c’è solo la gramigna, diceva mia nonna. Come hanno sempre ragione le nonne!
P.S: qualsiasi riferimento a persone o cose, é puramente casuale. Of course.
Adulare, lodare esageratamente, lusingare, blandire, incensare, lisciare, corteggiare, ungere, leccare… sono tutti sinonimi, con sfumature varie, di quello che è l’elogio sperticato e insincero, indice di piaggeria e servilismo.
La lode deve sempre essere misurata, se non altro per non mettere in imbarazzo chi la riceve, il quale, se persona sincera, è anche consapevole dei propri limiti.
Eppure s’incontrano di queste persone, che usano questo “vezzo”, spesso nei rapporti gerarchici, quando, al di là dei meriti, si voglia ingraziare il Capo, o verso una persona che si ritiene più autorevole, ma anche tra pari, per guadagnarsi amicizie a buon mercato e magari riceverne altrettanti elogi di ritorno,
Non è sincero il piaggiatore, anzi egli stesso, così prodigo di termini adulatori, se contrariato, esplode, paradossalmente, in invettive inaudite, con uso di graziosi termini offensivi del tipo becero, cafone, decerebrato, bizzochero, gesuita, buzzurro, infame, viscido, verme, botolo ringhioso, etc. E’ una sorta di legge del contrappasso che agisce in lui, perché alla falsità dell’elogiare corrisponde la sincerità dell’insultare.
Però c’è un tipo di adulazione che può avere una certa dignità, quantomeno espressiva: un tempo era in uso, tra i poeti, dedicare la propria opera al mecenate che l’aveva finanziata; altre volte era l’editore di un’opera famosa che la dedicava a qualche nobile conoscenza, come accadde per esempio per i sonetti di Shakespeare,
Al solo Procreatore
Dei Sonetti Che Seguono,
Mr.W.H. Ogni Felicità
E Quell’eternità
Promessa
Dal
Nostro Immortale Poeta
Augura
Il Bene Augurante
Venturiero
Di Questa Impresa
T.T.
Ma almeno chi la fece mostrò di aver gusto per gli indovinelli, visto il fior di studiosi che s’impegnarono per capire chi fosse quel Mr. W.H. Procreatore unico dei sonetti.
Si poteva trattare forse di questo:
“La probabile origine messinese di William Shakespeare (aprile 1564 – 23 aprile 1616) nasce da tutta una serie di considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita.
La commedia teatrale Molto rumore per nulla (titolo originale: “Much ado about nothing”), ad esempio, scritta da Shakespeare tra il 1598 e il 1599, è infatti interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi.
Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un suo articolo sul quotidiano L’Impero del 4 febbraio dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che Shakespeare era lo stesso Florio (o meglio Michelangelo o Michel Agnolo, figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza) basandosi sul ritrovamento di un volumetto del calvinista Michelangelo Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’Amleto. Su questa sua tesi pubblicò due libri, nel 1929 e nel 1955 (Un italiano autore delle opere shakespeariane).
La teoria dell’origine messinese del Bardo era stata avanzata nel 1950 dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’Università di Palermo, dal professor Enrico Besta.
Infine Martino Juvara da Ispica (Ragusa). Iuvara, nel 2002, pubblicò un volume intitolato Shakespeare era italiano in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. In particolare avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare.
La notizia fu una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa non solo italiani. Lo stesso Times (8 aprile 2000, articolo di Richard Owen) uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara.”
Dal sito Angloamerican studios-
Mariagrazia,
Il “procreatore unico” è sicuramente il giovane amato dal poeta, ma in chi si identicherebbe? A chi corrisponderebbero quelle iniziali W.H.?
Ci son varie attribuzioni. Un’ipotesi è che quelle iniziali corrispondano a
William Herbert, Conte di Pembroke.
Un’altra le attribuisce a Henry Wriothesley, Conte di Southampton.
Ma perché rivolgersi con la parola Mr. a due nobili?
Altri hanno attribuito quelle iniziali a William Hall, assistente tipografico dell’editore Thomas Thorpe, cui avrebbe consegnato il manoscritto.
C’è un quarta ipotesi: si tratterebbe di William Hervey, un giovane famoso per alcuni atti di eroismo al tempo della disfatta dell’Armada spagnola.
In quanto all’ipotesi delle origini di Shakespeare, è vero che sulla sua vita si sa poco e forse questo fatto ha dato adito a varie supposizioni (chi l’ha identificato a Ben Jhonson, altri a Christopher Marlowe), ma confesso che l’ipotesi dell’origine siciliana mi lascia incredulo, benché siano stati fatti studi seri per appurarne la veridicità, come quello da te riportato. Si tratterebbec di Michelangelo Florio, nato a Messima nel 1564, figlio di Giovanni e di Guglielma Crollalanza. Il padre calvinista fu condannato dall’Inquiszione e riparò in Inghilterra a Straford-on-Avon, passando prima per Venezia.
Michelangelo avrebbe preso il nome e cognome della madre, in versione inglese.
Si tratterebbe dello stesso Michelangelo Crollalanza, scrittore calvinista del XVI secolo di cui si è ritrovato un libro “I secondi frutti”, che presenta molte analogie con l’Amleto.
Ma, ripeto, dò credito alla biografia ufficiale di William Shakespeare.
A proposito dei sonetti di Shakespeare, e del carattere omofilo di gran parte di essi, viene spontaneo citare, per farne un raffronto, un’altra grande poetessa dell’antichità, Saffo, che scrisse appassionate poesie d’amore per alcune sue allieve.
Entrambi raggiungono vertici inarrivabili di ammirazione spontanea e intensa passione amorosa
William Shakespeare (Sonetto XVIII)
Devo paragonarti ad un giorno d’estate?
Tu sei ben più raggiante e mite:
venti furiosi scuotono le tenere gemme di maggio
e il corso dell’estate ha vita troppo breve:
talvolta troppo cocente splende l’occhio del cielo
e spesso il suo volto d’oro si rabbuia
e ogni bello talvolta da beltà si stacca,
spoglio dal caso o dal mutevole corso di natura.
Ma la tua eterna estate non appassirà mai
né perderà la bellezza che le è propria;
né morte potrà vantarsi che vaghi nella sua ombra,
perché al tempo contrasterai la tua eternità:
finché ci sarà un respiro od occhi per vedere
questi versi avranno luce e ti daranno vita.
Saffo(traduzione di Salvatore Quasimodo)
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
Per par condicio, è opportuno dare spazio anche all’espressione della passione amorosa eterosessuale, ma soprattutto perché la trovo una delle poesie d’amore di più intenso erotismo e insieme di struggente turbamento esistenziale:
Carme V di Catullo:
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum,
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,
e le maldicenze dei vecchi severi
stimiamoli appena un soldo.
I soli possono tramontare e sorgere,
ma noi, quando si spegne la breve luce,
una notte infinita dormiremo.
Dammi mille baci, poi cento,
poi altri mille, poi ancora cento,
Dopo, quando ne avremo dati migliaia,
mescoliamoli, perché non si possano contare
e nessun maligno ci invidi,
sapendo quanti sono i nostri baci.
(La traduzione è mia.)
Mi piace questo piccolo poet’s corner.
Ma, senza voler far torto ai grandissimi, meravigliosi citati, vorrei tornare all’argomento dell’adulazione per una breve sottolineatura sui “tipi” più diffusi nel genere e come potrebbero definirsi. Un ritrattino semplice, cosi per semplificare:
c’è il tipo…prof. Delle Frasche con le mani nelle tasche
o il tipo: marchese Di Rivastorta con le mani nella sporta
chi vuole continuare negli esempi?
Ah, ma come non citare il barone di Roccagallina dalla testa sopraffina?
Per non parlare delll’arciduca della Gran Feluca che, parla e sparla, ma va sempre in buca.
E cosa dire del dottor Bacile con un gran talento per il baciapile?
Dimenticavo, la Pricipessa del Machiavello che quando nevica apre l’ombrello, e l’arciprete don Maurizio che benedice solo per sfizio.
E che dire del marchese Dellistrani con le mani nei galani,con la figlia Anastasia dalla faccia molto pia?