Noto solo facce tristi, in giro, incavolate, rabbuiate. Sembriamo tutti chiusi ermeticamente in noi stessi. Alziamo barriere col prossimo nostro, anche il più prossimo. Abbiamo muri di fronte, più che persone.
Perché? E cosa si può fare per cambiare? Già. Non saprei rispondere né alla prima, né alla seconda domanda. Ma questa realtà mi piace poco. La società sta cambiando a ritmi vertiginosi. Ce ne accorgiamo quando abbiamo a che fare con qualcuno che non conosciamo, per un motivo qualsiasi, anche futile.
Ci troviamo di fronte un estraneo che ci guarda con occhi diffidenti. I più giovani sembrano i più restii ad avere qualsiasi tipo di contatto con chiunque non appartenga alla loro stretta cerchia. Sembrano terrorizzati anche solo a guardare in faccia un adulto che non sia parente stretto. C’è una compartimentalità stagna ormai cosi conclamata che è inutile persino provare a rivolgere anche solo una frase banale a qualcuno incontrato casualmente.
Per fare un esempio pratico:mi capita spesso di imbattermi in gruppetti di ragazzi in bici che attraversano le vie del centro, tornando da scuola, senza la minima cura nei confronti dei passanti. Sui marciapiedi, nelle piazze chiuse al traffico, sulle strisce pedonali, insomma ovunque, per loro è zona franca. Libera da qualsiasi tipo di regola e se capita che mi trovi a passare da quelle parti in corrispondenza col loro passaggio, c’è solo da sperare di portare a casa la pelle.
Ho provato qualche volta a dire a qualcuno di loro di non pensare di avere tutta la strada a disposizione, marciapiedi compresi ma mi è sembrato di parlare all’aria. Non solo non ascoltano ma neppure ti guardano. Ti schivano ( o schifano) e procedono per la loro strada come se nulla fosse.
Vale il principio di estraneità anche per gran parte degli adulti.
Chi sei? Ci conosciamo? Appartieni al mio giro? Questo sembrano dire certe facce imbronciate se appena si osa chiedere un’informazione o, se, per esempio, davanti ad una vetrina si osa rivolgere la parola a chi ci sta accanto, guardando lo stesso abito. “Carino, quasi, quasi entro a provarlo”. Chiunque sia, a meno di un miracolo, ti guarda con aria interrogativa e con un’ espressione che rivela una sorta di fastidio mista a timore.
Come se avesse paura che tu fossi una appena scappata da qualche centro di igiene mentale.
Stiamo sviluppando una diffidenza totale verso il prossimo che si riflette nella vita sociale in maniera evidente.
E di conseguenza, una solitudine sempre più diffusa che può essere percepita anche se in realtà non si è soli.
Si può vivere in compagnia di qualcuno col quale da anni ci si scambia solo qualche frase di circostanza quando ci si incontra in qualche stanza per pura coincidenza e, magari, non ci si saluta neppure più quando ci si incontra, perché è talmente l’abitudine di vedersi bazzicare da quelle parti che il saluto sembra essere del tutto superfluo. Una delle forme più tragiche di solitudine: quella che si prova quando si è in compagnia.
Lo stesso vale per i vicini di casa o condomini, parola orrenda che sta a significare che si spartisce lo stesso “dominio”, ma ci si guarda preferibilmente in cagnesco. Salutarsi , poi, è una sofferenza che in molti decidono di non voler provare. Il nonsaluto è quasi la regola nei condomini. Gente con la quale dividi le stesse pareti da anni, ma con la quale hai poco o nulla a cui spartire e, anzi, trovi più spesso motivo di contrasto che di vicinanza.
Ci sono anche le eccezioni, è vero ma la regola è questa. Almeno in base alla mia esperienza.
Estraneità diffusa e tenacemente perseguita.
Ma si potrebbe cambiare se solo ci impegnassimo di più a mostrare una faccia più gentile, a dimostrare maggiore disponibilità e apertura verso le persone che incrociamo sulla nostra strada, siano esse effettivamente degli estranei o, incidentalmente (e non), familiari. Ovviamente a maggior ragione, ma non troppo.
In quest’epoca di massima visibilità sui social network, paradossalmente, nella vita reale si sta diffondendo un invisibilità e un’indifferenza che si percepisce chiaramente in molte occasioni e la trovo una cosa sconfortante.
Forse che l’Italia da paese del sole e del mare, della socialità e del buonumore, si sta trasformando in paese dai muri sempre più alti di diffidenza ed indifferenza?Mah, forse sto solo passando un momento di estraneità passeggera.
Mariagrazia
hai descritto un ambiente sociale livido, veramente spaventoso, e purtroppo vero, specie in quelle comunità ad alta densità abitativa che sono le città, le nostre carceri moderne.
È vero, la città rende anonimi, ci abitua all’indifferenza, ci estranea, tanto più quanto più è grande.
Il traffico, il rumore, i pericoli, l’inquinamento, la difficoltà di muonversi, di raggiungere un amico o un parente, una località qualsiasi.
Già di primo mattino, sveglia e via, tutti vanno di fretta, destinazione il luogo di lavoro, strade intasate d’auto, mezzi pubblici colmi, sotterranei dei metrò sovraffollati. Al Nord c’è in più la nebbia che dà un senso d’oppressione.
Poi le strade si affollano, si va per negozi, per uffici, nei bar, per il passeggio, le panchine delle piazze o dei giardini pubblici sono occupate da anziani che riposano e aspettano, chissà cosa. Denominatore comune, la fretta, come se qualcosa di terribile incomba su di noi e ci costringa a fuggire.
Eppure basta aver fiducia nel prossimo (certo finché non ti tradisce), basta un saluto, un sorriso, una parola. Ma anche un po’ di tolleranza, atteggiamento invece rarissimo, e un po’ di considerazione per gli altri, oltre che per noi.
Oggi, in pieno centro, nella mia città, nell’ora di punta, un barbone dormiva sulla soglia di un ingresso inagibile, adattata a giaciglio, del bel Palazzo delle Poste, rimesso a nuovo di recente. Pareva trasparente, tanta era l’indifferenza delle persone che da li transitavano!
Ciao, con un sorriso.
E’ vero, ci sono persone che chiamiamo barboni i quali hanno scelto di vivere ai margini della società per motivi diversi e che quasi non vediamo.
Ma non sono solo loro a sembrare quasi trasparenti, Un’intera umanità che sembra sempre più concentrata su se stessa.
Hai ragione basterebbe un po’ di buona volontà e forse si potrebbe ritornare ad essere più umani e meno “fantasmi”.
Signora Mariagraza, certa diffidenza nasce anche daĺle cattive esperienze. A me è capitato di essere oggetto di scippo e da allora sto sempre in guardia se qualcuno mi s’avvicina, anche per chiedere che ora è.
Signor Alessandro, quel barbone anziché essere commiserato avrebbe preferito un aiuto concreto.
Cara Milena, non mi capita spesso di incontrare barboni. Uno, anni fa, sotto i portici del municipio di Fidenza; io ed una amico gli abbiamo portato dei panini ed una birra. L’ultimo è stato a Torino; era molto giovane, viveva tra cartoni e coperte sporche, in un’afa infernale. Abbiamo scambiato qualche parola, ma lui non ha voluto nulla, né denaro né tanto meno cibo. Lo schifo è che nessuno, tipo assistenti sociali, si interessi di costoro. Non sono immigrati, rifugiati e richiedenti asilo, sono italiani, chissenefrega.
In realtà ci sono molte associazioni che si occupano di loro, almeno dalle mie parti.
Gentile Milena,
in quella occasione ero in auto, però è vero, quelle poche monete che singolarmente possiamo dare, sono inadeguate rispetto la condizione di esasperata emarginazione in cui versano quelle persone.
E le istituzioni fanno poco o nulla per dare loro un minimo di dignità umana.
Mariagrazia, qui da me, nel cortiletto che precede gli uffici delle assistenti sociali, per mesi e mesi, stazionava una vecchia auto, divenuto l’abitazione di un poveraccio 60enne,,senza lavoro né famiglia. Nessuna delle sussiegose e arroganti assistenti piddine rovinafamiglie lo ha mai aiutato. Un giorno, sono passato, era sparito. Nessuno mi seppe dire dove mai. Ha ragione Alessandro, le istituzioni li ignorano, i barboni, e si limitano ad aiuti sporadici, una goccia nel mare dei loro guai.
Parlavo di associazioni di volontari religiose e non, le istituzioni non fanno quasi nulla.